Eliane Brum* racconta del suo trasferimento ad Altamira e amplifica le voci che dovrebbero essere ascoltate nella crisi climatica
intervista a cura di Juliana Domingos De Lima, Ecoa Uol, Nov.2021
(traduzione di Carlinho Utopia)
Da quando si è trasferita da San Paolo ad Altamira (PA) nel 2017, la giornalista Eliane Brum sente un "banzeiro" dentro di sé. Spiega che "banzeiro" è come la gente dello Xingu chiama il vortice del fiume, la forza circolare che fa girare le barche come giocattoli, e descrive anche il turbinio personale che si è impossessato di lei da quando ha deciso di guardare il Brasile dal suo centro: il cuore dell'Amazzonia.
Nel suo nuovo libro, "Banzeiro òkòtó: un viaggio nell’Amazzonia centro del mondo", la Brum denuncia la crescente devastazione della foresta e gli impatti della deforestazione sui suoi abitanti tradizionali, come i ribeirinhos [¹] i quilombolas [²] e gli indigeni. Il suo viaggio si collega a questioni come la crisi climatica e le questioni di genere, razza e classe. Il libro presenta immagini scattate da Lilo Clareto, collega della giornalista per 20 anni, scomparso, vittima del covid-19, nel 2021.
Dalla sua casa di Altamira, ha parlato dei problemi e dei poteri che osserva da questo luogo, delle lotte e delle urgenze che devono muovere le persone per salvare la foresta amazzonica e il pianeta.
[¹]Ribeirinhos: abitanti delle rive del fiume, non sono indigeni, sono i discendenti dei primi nordestini che arrivarono durante il ciclo del caucciù. [²]Quilombolas: sono gli integranti di comunità chiamate Quilombos, formate da schiavi africani fuggiti dalle piantagioni in cui erano prigionieri nel Brasile all'epoca della schiavitù.
Ti sei trasferita ad Altamira dopo la costruzione di Belo Monte. Cosa ti ha portato a questa decisione?
Per molti anni, Altamira era stata solo un luogo di passaggio; scendevo dall'aereo e andavo subito nella foresta, perché non mi interessava la città. Ho seguito Belo Monte dal 2011. È stato allora che un pò per volta ho conosciuto la città, seguendo le famiglie di ribeirinhos espulse dalla centrale idroelettrica alla periferia della città, in case che hanno comprato o affittato con i soldi degli indennizzi, o nei RUC, i reinsediamenti urbani collettivi, che sono i quartieri standardizzati che la Norte Energia, la società proprietaria, ha costruito. Sono stata testimone di come la gente della foresta sia stata sradicata e gettata nella periferia della città, distruggendo tutti i legami comunitari.
Ho cominciato a conoscere Altamira anche attraverso gli occhi di queste persone che stavano vivendo per la prima volta nella periferia di una città, per la prima volta dovevano pagare una bolletta della luce, pagare il cibo, il gas. Non sapevano nulla di tutto questo. Non avevano nemmeno un posto per legare un'amaca in queste case, non sapevano dove fossero i loro vicini, e venivano derubati - presto i RUC divennero luoghi violenti a causa della criminalità organizzata. Altamira è diventata la città più violenta del Brasile, secondo l'Atlante della violenza 2017. È la più violenta dell'Amazzonia ancora oggi.
Quando ho deciso di trasferirmi, è stato per una questione di coerenza, perché io, come altri, difendevo e difendo ancora che, in un momento di emergenza climatica, bisogna mutare i concetti di ciò che è centro e ciò che è periferia. I centri sono i luoghi della natura, gli oceani, le foreste tropicali - l'Amazzonia è la più grande di tutte. Se non capiamo che questi sono i centri del nostro mondo oggi, non saremo in grado di affrontare l'emergenza climatica, la sesta estinzione di massa delle specie.
Questo è stato il senso cosciente del mio trasferimento ad Altamira, con l'idea che il centro del mondo non è solo una questione geopolitica, ma anche di chi deve essere la guida ed il pensiero nell'affrontare l'emergenza climatica. Non è certo il pensiero occidentale, bianco, europeo, maschile, binario, patriarcale che ci ha portato all'abisso. Dobbiamo imparare dai popoli-natura, che vivono nella natura, come natura, da migliaia di anni e senza distruggerla.
Vivendo in città ho capito che, per comprendere l'Amazzonia, dovevo capire la città amazzonica. Perché esse sono le rovine della foresta in un senso profondo - non solo gli alberi abbattuti, i non umani assassinati, ma anche gli umani trasformati in poveri e spogliati di tutto ciò che sapevano di se stessi. Per agire in difesa dell'Amazzonia in senso lato, è necessario capire la città e fare una politica pubblica per le persone che sono state deforestate.
Quali percorsi e soluzioni la resistenza di Altamira indica al Brasile?
Nel libro dico che vedo Altamira come una specie di apripista. La mia ipotesi, da tutto quello che ho osservato qui per tanti anni, è che Belo Monte ha avuto l'impatto di una crisi climatica localizzata. In pochissimi anni ha devastato tutto, ha prosciugato parte del fiume, una compagnia controlla l'acqua, le persone sono state espulse in periferia in case che non hanno nulla a che fare con loro, senza poter pescare, il pesce è contaminato e la città è diventata più violenta. Altamira può mostrarci, purtroppo, ciò che può accadere - sta già accadendo in altri luoghi che stanno soffrendo impatti di questo livello - ogni anno che la crisi climatica si aggrava.
Il Brasile come Stato-nazione è stato fondato su corpi umani, prima di indigeni, poi di neri schiavizzati, e questo è un fatto. Ma dobbiamo anche guardare al Brasile come un enorme esempio della resistenza di queste popolazioni, e questo è molto presente qui ad Altamira.
La gioia di stare insieme, di costruire comunità, di lottare per il bene comune è un potente strumento di resistenza, è la gioia come potere di agire. Queste molte trasgressioni, come la stessa storia che racconto nel libro su ciò che fecero i ribeirinhos della loro oppressione, ci indicano dei percorsi.
Penso che la speranza sia sopravvalutata, sovrastimata. Siamo in un momento in cui la speranza è un lusso che non abbiamo. In questo senso, sono molto d'accordo con Greta Thunberg quando dice: "Non voglio la vostra speranza, voglio che vi facciate prendere dal panico come me, perché la nostra casa è in fiamme".
"Dobbiamo agire. Se vogliamo avere qualche chance di non vivere su un pianeta molto ostile per la nostra specie e molte altre, dovremo trasformarci in altri tipi di persone molto rapidamente".
In che modo la riflessione sul posto della bianchitudine è presente oggi nel tuo lavoro? Perché è necessaria?
Perché la condizione di essere bianca mi pone diverse domande e determinazioni. Una volta ho scritto un articolo nel quale dicevo che il migliore dei bianchi riesce al massimo ad essere solo un buon sinhozinho (“signorino”, così gli schiavi chiamavano il loro padrone, ndt.). Ed è così, perché posso affermare di non essere razzista, ma il mio vantaggio in un paese strutturalmente razzista è reale, è determinante.
Ho avuto più accesso a varie cose, ho meno probabilità di avere alcune malattie, ho più aspettativa di vita perché sono bianca. E le persone che fanno i lavori peggio pagati intorno a me sono nere. Questo, per me, è sempre stato molto duro e in certi momenti della mia vita è diventato insopportabile. Io lo chiamo vivere violentemente. Non sono violenta - io, in quanto individuo, Eliane. Ma io vivo violentemente in questo paese perché sono bianca.
Penso che sia molto importante la responsabilità collettiva, che è diversa dalla colpa. Mi piace come Hannah Arendt vede la responsabilità collettiva, del fatto che tu, individuo, non hai commesso i crimini dei tuoi antenati, ma ne sei responsabile. Così come godiamo dei benefici di ciò che hanno fatto i nostri antenati, dobbiamo anche assumerci la responsabilità di ciò che hanno fatto prima di noi.
Noi tutti dobbiamo essere collettivamente responsabili del razzismo strutturale, della violenza che c'è. E la stessa cosa con la questione degli indigeni. Sono una discendente di immigrati italiani che occuparono luoghi che prima erano terre indigene nello stato del Rio Grande do Sul. C'è una lunga storia che mi porto dietro e di cui sono responsabile. Non ne sono colpevole in quanto individuo, ma ne sono responsabile.
Il mio è un processo, tra virgolette, di “de-sbiancamento”, che è quello che cerco. Questo non significa che diventerò nera o indigena. Non è possibile, sarò sempre bianca. Ma cerco di “de-sbiancare” il mio pensiero di matrice occidentale, europeo, che ha determinato le mie letture, insomma, di “de-sbiancare” il mio modo di vedere il mondo.
Pensando allo scenario attuale di distruzione galoppante dell'Amazzonia e all'emergenza climatica, quali soluzioni vedi a partire dalla tua convivenza con la foresta negli ultimi anni?
Con Bolsonaro, non c'è nessuna chance. Deve essere rimosso dal potere con gli strumenti della Costituzione. Il fatto che questo non accada, nonostante stia portando l'Amazzonia al punto di non ritorno, nonostante gli oltre 600.000 morti per covid-19, per i quali è comprovata la responsabilità diretta del governo, nonostante tutta una serie di orrori di cui potremmo continuare a parlare qui per ore, il fatto che non stia affrontando una procedura di impeachment dimostra che il problema precede Bolsonaro e va ben oltre lui stesso.
Quindi, non ci resta che lottare. Ed è quello che le persone qui stanno facendo, stanno lottando per tutti noi. Essi continuano a creare modi per vivere, continuano a lottare per mantenere la foresta in piedi e nei prossimi anni sarà ancora più difficile.
Il nostro pianeta si sta surriscaldando e questo surriscaldamento è causato dall'azione umana. Stiamo vivendo la sesta estinzione di massa delle specie - la prima per azione umana. E questo problema è trattato come qualcosa di separato e non come qualcosa che attraversa assolutamente tutto. La morfologia e il clima del pianeta stanno cambiando e questo non è ancora il problema più importante!
Stiamo vivendo molte cose inedite, che ci sfidano, ma le persone sono come paralizzate.
"Il mio libro racconta anche di un percorso con l'aspettativa di fare la mia piccola parte nello spingere le persone a muoversi per qualcosa che è la nostra stessa vita. Siamo a rischio di estinzione. Se non ci muoviamo per questo, per cosa mai dovremmo muoverci?".
*Eliane Brum è nata a Ijuí, nel sud del Brasile, nel 1966. Scrittrice, reporter e documentarista, vive ad Altamira, città amazzonica nella quale si è stabilmente trasferita nel 2017. Ha vinto moltissimi premi nazionali e internazionali di giornalismo ed è la reporter brasiliana più premiata della storia.
Nel 2021 è stata tra le vincitrici dell'antico e prestigioso Premio Cabot di giornalismo della Columbia University. In Brasile, nel 2019, con il suo libro “Brasil, Construtor de Ruínas: um olhar sobre o país, de Lula a Bolsonaro”, ha vinto il Premio Vladimir Herzog de Anistia e Direitos Humanos, che riconosce il lavoro di giornalisti, reporter fotografici e disegnatori che attraverso il loro lavoro quotidiano difendono la democrazia, la cittadinanza ed i diritti umani.
Collabora con El País e The Guardian. Ha pubblicato un romanzo, "Uma Duas" (2011), ed altri sette libri. Ad ottobre del 2021 ha pubblicato la sua ultima opera "Banzeiro òkòtó: Uma viagem à Amazônia Centro do Mundo". I suoi libri sono stati tradotti in diversi paesi. In Italia ha pubblicato “Le vite che nessuno vede” (Sellerio 2020) ed un suo testo in "Dignità! Nove scrittori per Medici senza Frontiere" (Feltrinelli 2011).
Site: elianebrum.com
Email: elianebrum.coluna@gmail.com
Twitter, Instagram e Facebook: @brumelianebrum
Oltre che su questo blog, altri articoli di Eliane Brum tradotti in italiano sono presenti sul sito Il Resto del Carlinho Utopia, qui
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