15.01.15
Il mio "scontro" con la polizia di Alckmin
La nota giornalista e scrittrice Eliane Brum si è trovata coinvolta nella violentissima repressione della polizia durante la manifestazione del 9 gennaio scorso a San Paolo contro l'aumento delle tariffe dei trasporti pubblici. Il suo racconto mette i brividi.
di Eliane Brum*, pubblicato su El Pais del 10.01.15 (traduzione di Carlinho Utopia)
Pochi minuti prima di diventare una "vandala", mi sono fermata, mi sono girata e ho guardato la folla che riempiva il viale della Consolação, nella prima manifestazione contro l'aumento di 50 centesimi del biglietto degli autobus a São Paulo.
Era Venerdì 9 gennaio, tardo pomeriggio. C'è l'ora legale, ed era ancora chiaro. Ho pensato a quanto fosse bello che migliaia di persone si riappropriassero delle strade, dello spazio pubblico, della città, per esercitare il loro diritto democratico di protestare contro quello che considerano ingiusto. São Paulo, vista a piedi, passeggiando per le strade senz'auto, è un'altra città. E' umana. Dalle finestre e dai balconi degli edifici, le persone ci salutavano.
Poco prima, avevo sentito parlare due manifestanti: "Allora, fino a quando questa continuerà a sembrare una processione?". E quando mi sono voltata per riprendere a camminare, il clima di fronte a me era un altro.
I "black bloc" e alcuni altri erano andati avanti e avevano iniziato a scalciare saracinesche ed a rovesciare bidoni della spazzatura spargendone il contenuto per la strada.
In quel momento l'ho visto. Vestito di giallo, lui era estraneo agli incappucciati in nero. Ma li seguiva. Sapendo come i "black bloc" agiscono nelle manifestazioni, mi avrebbe raccontato in seguito, è solito seguirli per raccogliere lattine di bibite e di birra. E così danzava un balletto surreale in cui lui sembrava lo spezzone di un'altra scena, ignaro di ciò che stava accadendo, attento solo al selciato, camminando lentamente in prima linea mentre intorno scoppiava il caos.
Mi sono avvicinata e presentata come giornalista, e lui mi ha detto di chiamarsi Ailton Da Silva, di avere 58 anni e di vivere a São Miguel Paulista, nella Zona Est, una delle regioni più povere della capitale. Quella che si allaga ad ogni pioggia, la prima a restare senz'acqua nei rubinetti in questi tempi in cui São Paulo si avvicina sempre di più ad uno scenario di distopia.
Per mettere insieme il valore equivalente di un biglietto dell'autobus, dopo l'aumento - R$ 3.50 - Ailton avrebbe bisogno, secondo i suoi calcoli, di quasi 100 lattine. Era ben lontano da questo. Qualcosa che dovrebbe far riflettere quelli che dicono "sono solo 50 centesimi". "Solo" per chi?
Gli ho chiesto della maglietta gialla, mi ha detto che quella che contava l'aveva sotto. E mi ha mostrato una maglietta del Corinthians che aveva già assistito a tante partite. Si è accomiatato: "Ho bisogno di continuare. Proseguirò, correndo tutti i rischi."
Ha fatto un passo, si è voltato e ha fatto un gesto di saluto. Ha proseguito, guardando a terra, nel brutale pragmatismo della sopravvivenza, che trova tutte le possibili scappatoie, come quella, ad esempio, di seguire i "blak bloc" per raccogliere le lattine dalla spazzatura che loro spargono per le strade in segno di protesta.
Nel momento in cui il raccoglitore di lattine è sparito nella confusione, alcuni "black bloc" hanno rotto una vetrata di una agenzia della Banca Santander. Ho percorso ancora pochi passi.
I manifestanti che erano davanti hanno iniziato a correre nella direzione opposta al corteo. E ho visto - e sentito - le prime bombe di gas lacrimogeno.
La polizia dichiara guerra al diritto di manifestare dei cittadini. Il video riassume bene la dinamica della violenta repressione poliziesca contro i manifestanti.
Lo scorso 9 gennaio molte migliaia di persone (30.000 secondo gli organizzatori, 5000 secondo la polizia) sono scese in piazza a San Paolo per manifestare contro i nuovi aumenti dei prezzi dei trasporti "pubblici" (in realtà gestiti da imprese private che fanno grandissimi profitti). La prima grande manifestazione del 2015 è stata repressa con violenza inaudita dalla polizia militare. Tutto è cominciato quando uno sparuto gruppetto di "Black Bloc", lontano dal corteo, ha sfasciato le vetrine di un'agenzia bancaria. La polizia non attendeva altro: invece di limitarsi a contrastare quell'azione isolata ha scatenato una vera e propria guerra contro il grande corteo pacifico che si trovava a circa 500 metri da quel luogo. Un film drammaticamente già visto in tante altre occasioni. Decine di feriti, molti arresti arbitrari, caccia all'uomo, ed un uso massiccio di gas lacrimogeni, bombe di "effetto morale" (sic.), pallottole di gomma. La polizia si è presentata attrezzatissima e con le nuove armature in stile "robocop" acquistate nei mesi scorsi in occasione della coppa del mondo. Non è che l'inizio: i movimenti hanno annunciato una seconda manifestazione per il prossimo 16 gennaio. Le grandi manifestazioni che si svolsero nel 2013 in Brasile e che portarono in piazza milioni di persone, erano cominciate proprio a San Paolo e per lo stesso motivo: bloccare l'aumento del prezzo dei trasporti "pubblici".
Istintivamente, io e tutti quelli che erano lì, abbiamo incominciato a correre verso la strada laterale, scappando per evitare di essere colpiti. Ma la polizia militare del governo di Geraldo Alckmin (il governatore dello Stato di San Paolo, del PSDB) ci ha intrappolati.
L'azione della PM (polizia militare) mostrava di non voler disperdere i manifestanti, ma di volerli invece colpire. Hanno cominciato a lanciare bombe anche lungo la nostra unica via di fuga, impedendoci di uscire da lì.
A un certo punto davanti a me c'erano quattro bombe lacrimogene, quasi tutte vicine. E non è necessario essere degli specialisti e nemmeno troppo intelligenti per sapere che non è questo il "procedimento". In quel momento, stavo già soffocando e, senza riuscire a respirare col naso, cercavo di prendere l'aria attraverso la bocca, cosa che non si deve fare. Tutta la mia faccia e le braccia bruciavano, ho avuto la sensazione era che la mia pelle si stesse tagliando. I miei occhi bruciavano. Era difficile respirare, vedere e non c'era modo di scappare. Ci siamo buttati contro i cancelli di ferro, le grate, le vetrate di edifici e dei negozi chiusi, che non si sono aperti per noi. Nell'ora della paura, la solidarietà è una delle prime a morire.
La polizia stava lanciando bombe su di noi. E' stato spaventoso. Quegli uomini pagati con i nostri soldi per proteggerci, ci stavano attaccando deliberatamente. Noi, disarmati, indifesi, ammassati lungo le pareti, con tutto il corpo dolorante, continuavamo ad essere colpiti. Era ben chiaro che lì non c'era alcuna minaccia, appena cittadini intrappolati e terrorizzati. Ma loro continuavano a lanciare bombe e ad impedirci di andare via.
Lo Stato ci attaccava. Questa è stata la percezione che mi ha fatto provare più paura. Era chiaro che i poliziotti tiravano bombe su di noi per odio. Eravamo i loro nemici. È la logica della polizia militare, e si esprimeva con chiarezza quasi didattica in quel momento. Mi resi conto che, con quel livello di rabbia e con quella impreparazione totale, la mancanza di controllo poteva aumentare ulteriormente ed avrebbero potuto farci molto più male di quanto già ci avevano fatto.
Poche cose sono più spaventose di uno Stato violento, dell'aver coscienza che coloro che detengono l'uso della forza sono armati, impreparati e provano odio. Qualcuno avrebbe potuto anche rimanere ucciso. È quello che lì stavamo sentendo. Ammassati come topi da laboratorio di un esperimento sadico, avevamo paura di morire per mano di una polizia che si dimostrava criminale. E che sembrava aver aspettato solo un pretesto per attaccare quelli che dovrebbe proteggere.
In quel momento c'era tanto gas che iniziai a sentirmi stordita e pensai che avrei perso conoscenza. Ho pensato che se fossi svenuta lì avrei potuto morire calpestata o per mano della PM. Immagino che un qualche istinto di sopravvivenza mi abbia salvato, perché sono riuscita a rimanere cosciente, malgrado mi sentissi soffocare. Accanto a me, un uomo di circa 70 anni cercava di non cadere. Alcune persone vomitavano. Un ragazzo gridava: "Aiutatemi, ho bisogno di aiuto." Un altro diceva: "Non vedo più niente". Ed è andato a sbattere contro il muro. Questi erano i "vandali", me compresa.
Non so quanto tempo sia passato prima che riuscissi ad andare via da lì. Mi è sembrata un'eternità. Non so chi ha dato il nome "bombe ad effetto morale" a queste cose. Così come le bombe di gas lacrimogeno, che è provato possono causare danni alla salute nel medio e lungo termine. A casa, nauseata, con il viso tutto rosso, mi sono messa a fare una ricerca su di esse per sapere che cosa fare e ho scoperto che nelle persone affette da bronchite, come me, possono causare edema polmonare. Sono quasi svenuta due volte prima di riuscire finalmente a dormire.
Resto molto spaventata, come giornalista e come cittadina, dall'uso della parola "scontro" per definire quello che è successo nella prima grande manifestazione del 2015. E in molte altre prima di quella. Qual era la mia possibilità e quella dei manifestanti di "scontrarsi" con centinaia di poliziotti armati? Qual è stato lo scontro mentre ce ne stavamo ammassati contro un muro a prenderci bombe di gas e proiettili di gomma? Che scontro è mai questo tra le forze di repressione dello Stato e cittadini che esercitano il loro legittimo diritto a protestare? Questo discorso dello "scontro", ricorda i tempi della dittatura e di una stampa sottomessa alla censura. Dovrebbe essere inammissibile in una democrazia. Che si chiami "scontro" questa violazione della legge da parte della polizia, nell'esecuzione di ordini superiori è irrispettoso anche verso la Storia.
Alla fine della notte di ieri, dopo essere stata vittima della violenza della polizia, la mia sensazione era quella di essere stata abusata. La persona che era con me ha rivissuto la stessa sensazione che aveva provato, anni fa, quando soffrì un "rapimento lampo" e rimase sotto il tiro delle armi e minacciato di morte. Non è riuscito a dormire.
Come giornalista che segue le questioni dei diritti umani, so molto bene che, in periferia, i proiettili non sono di gomma e che il terrore è quotidiano. E ho sperato che il raccoglitore di lattine fosse riuscito a fuggire. Quando tutto è finito - e, allo stesso tempo, nulla è finito - sono entrata attraverso le sbarre del cancello del mio palazzo, uguale a tutti quelli che poco prima non si erano aperti per me, e mi sono consegnata all'illusione della protezione. Il raccoglitore di lattine è consegnato all'impotenza, per lui non si aprono portoni, lui che mangia solo se continua a guardare per terra.
Utilizzo qui l'unica arma che ho avuto nella vita. La mia scrittura.
Eliane Brum
è nata a Ijuí, nel sud del Brasile, nel 1966. Scrittrice, reporter e documentarista, vive ad Altamira, città amazzonica nella quale si è stabilmente trasferita nel 2017. Ha vinto moltissimi premi nazionali e internazionali di giornalismo ed è la reporter brasiliana più premiata della storia.
Nel 2021 è stata tra le vincitrici dell'antico e prestigioso Premio Cabot di giornalismo della Columbia University. In Brasile, nel 2019, con il suo libro “Brasil, Construtor de Ruínas: um olhar sobre o país, de Lula a Bolsonaro”, ha vinto il Premio Vladimir Herzog de Anistia e Direitos Humanos, che riconosce il lavoro di giornalisti, reporter fotografici e disegnatori che attraverso il loro lavoro quotidiano difendono la democrazia, la cittadinanza ed i diritti umani.
Collabora con El País e The Guardian. Ha pubblicato un romanzo, "Uma Duas" (2011), ed altri sette libri. Ad ottobre del 2021 ha pubblicato la sua ultima opera "Banzeiro òkòtó: Uma viagem à Amazônia Centro do Mundo". I suoi libri sono stati tradotti in diversi paesi. In Italia ha pubblicato “Le vite che nessuno vede” (Sellerio 2020) ed un suo testo in "Dignità! Nove scrittori per Medici senza Frontiere" (Feltrinelli 2011).
Site: elianebrum.com | Twitter, Instagram e Facebook: @brumelianebrum
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