top of page

21.03.16

In politica anche i credenti devono essere atei

Il momento del Brasile, culminato con le manifestazioni del 13 marzo, mostra i rischi di un’adesione spinta dalla fede: bisogna resistere grazie alla ragione

di Eliane Brum*, pubblicato su El Pais il 18.03.16

traduzione di Clelia Pinto e Carlinho Utopia 

Non si costruisce un progetto politico con i fanatici religiosi. Ma l'angoscia, nel Brasile di oggi, è data anche dalla volontà di credere che ci sia qualcosa di vero in un quotidiano segnato dalle mistificazioni. Il pericolo, in questi giorni la cui sceneggiatura sembra essere scritta da esperti di marketing, è che questo credere sia del tutto irragionevole. Si esige fede. Quando la politica domanda consensi mediante la fede bisogna fare molta attenzione.

 

I partiti che stanno lì a spingere verso un credo o un altro, potranno anche pensare che avere una popolazione di devoti che legittimano i loro progetti di potere possa esser loro favorevole. Ma l’adorazione, rapidamente, può volgersi altrove come alcuni devono aver già capito dopo le manifestazioni del 13 marzo. O peggio, verso un idolo di fango qualunque.

 

Svalutare la politica non è mai una buona idea per il futuro. Chi pensa di controllare i devoti, con le loro spirali di odio e amore, non ha imparato nulla dalla storia e nemmeno comprende il troppo umano delle masse urlanti.

Manifestazione del 13 marzo a San Paolo

C’è un’enorme mancanza di fede verso i politici e nei partiti tradizionali, e questo è già un luogo comune. Ma è importante capire che a questa mancanza di fede non si contrappone più la ragione, bensì una voglia feroce di aver fede. Quando i giorni, le voci e le immagini suonano falsi, e a questo si aggiunge un quotidiano corroso, bisogna aggrapparsi a qualcosa. Quando si elegge qualcuno al ruolo di colpevole, uno che simbolizzi tutto il male, si elegge anche un salvatore, uno che simbolizzi tutto il bene. L’adesione mediante la fede, che si manifesti con l'odio o con l'amore, elimina complessità e sfumature, riduce tutto a una lotta del bene contro il male. E questo, che mi sembra sia quel che vive il Brasile oggi, può essere pericoloso. Non solo perché potrebbe condurre verso una dittatura, come alcuni temono, ma verso l'installarsi di una democrazia di facciata, come quella che, per alcuni aspetti, stiamo già vivendo.

Manifestazione del 13 marzo a San Paolo

Una democrazia richiede cittadini autonomi, adulti emancipati, capaci di assumere le responsabilità delle loro scelte e sempre mossi dalla ragione. Quel che si osserva oggi è una voglia di distruzione che attraversa la società e segna persino i piccoli atti quotidiani. Il linciaggio, che marca la storia del paese e l'attraversa, è un atto di fede. Non passa né dalla legge né dalla ragione. Al contrario, le elimina, le sostituisce con l’odio. È l’odio che giustifica la distruzione di colui il quale in quel momento incarna il male. Questo è quel che sta succedendo in Brasile non solo sui social network ma in forme ben più sofisticate. Questo è stato provocato. Chi pensa di controllare i linciatori, non ha capito niente.

 

Forse la cosa più importante da fare, in questo momento così delicato, è resistere. Resistere all’aderire per conto della fede a ciò che appartiene al mondo della politica. Ancorarsi alla ragione, al pensiero, alla conoscenza che si rivela grazie all’esercizio persistente del dubbio. È più difficile, è più lento, è meno sicuro e senza garanzie. Ma è quel che può permettere la costruzione di un progetto per il Brasile che non sia quello della distruzione. A soffrire per primi e di più per la dissoluzione in corso sono i più poveri e i più fragili. È necessario resistere anche come imperativo etico.

 

In politica, anche i credenti devono essere atei.

Ma mai, per lo meno dal ritorno alla democrazia, è stato così difficile vincere questo paradosso: all’enorme mancanza di fede si contrappone una enorme voglia di fede. Una voglia disperata di fede. E questo vale per ogni parte.

Sarebbe bello se potessimo credere che le centinaia di migliaia di persone che sono scese in piazza domenica 13 marzo vogliono la fine della corruzione in Brasile. La bellezza di un paese unito contro quel che lo trascina nella fogna è un’immagine forte, potente.

Ma la massa "verde-gialla" (ndt. i manifestanti sono soliti indossare le magliette della nazionale di calcio), vista da vicino, denuncia se stessa.

 

Chi vuole la fine della corruzione in Brasile non porta in piazza pupazzetti gonfiabili di Lula e Dilma (ndt. genere di gadget molto in voga nelle proteste di piazza degli ultimi mesi), e nemmeno dimentica tutti gli altri che non appartengono al partito che vuole strappare dal governo.

 

Chi vuole la fine della corruzione in Brasile non avrebbe mai negoziato con Eduardo Cunha come i leader che hanno organizzato le manifestazioni hanno invece fatto recentemente. Né indossa magliette della CBF (Confederazione di Calcio Brasiliana), che non potrebbe esser più corrotta. Né scatta selfies con una polizia che sistematicamente viola la legge.

 

La corruzione è una bandiera conveniente per chi non vuole cambiare niente ma deve far finta di volerlo. C’entra sempre, perché, allo stesso tempo in cui crea consenso - o qualcuno vorrà dirsi a favore della corruzione? – è diffusa. Si scelgono i corrotti da distruggere, che diventano pupazzi, volti da eliminare. E non si cambia niente nella struttura che provoca disuguaglianza e permette la corruzione di fondo.

 

È interessante capire, quando non si aderisce spinti dalla fede, che l’obiettivo delle piazze sono i politici, principalmente Lula e Dilma, contro i quali nulla è stato ancora provato. Ci sono indizi, denunce e indagini in corso. Ma non è stato provato ancora nulla. Ma cosa importano i fatti quando quel che vale è la propaganda? Cosa importa la verità quando quel che si domanda è esercizio di fede?

Manifestanti fanno la fila per scattare selfies con la polizia militare
Pupazzetti gonfiabili di Lula e Dilma con divisa da carcerato

Nelle piazze il volto dei corrotti, di quelli che simboleggiano la corruzione che si dice di combattere, è il volto dei governanti, un ex presidente e colei che gli è succeduta.  È un unico partito, quando ce ne sono altri coinvolti. I bersagli delle piazze sono quelli identificati con lo Stato. Non ci sono pupazzi di esponenti dell’imprenditoria nazionale, alcuni già in carcere, giudicati e condannati. Le organizzazioni della classe imprenditoriale che hanno richiamato i loro associati all’adesione alle proteste di domenica 13 non hanno urlato contro i loro pari in carcere. La faccia del Mercato, l’altro lato di questa storia, non è rappresentata nelle piazze come colpevole, nonostante sia anch’essa protagonista dello schema di corruzione e tangenti che l’operazione Lava Jato sta smascherando. E perché non c’è?

 

Per comprendere un quadro nella sua interezza, capire chi non c’è è importante come vedere chi c’è. Non c’è modo di affermare quel che ognuno di quelli scesi in piazza desidera, quale insoddisfazione lo ha portato lì. Sono molte le passioni - e lo spazio pubblico appartiene a tutte loro. Ma è importante osservare che il senatore Aécio Neves e il governatore Geraldo Alckim, due dei potenziali candidati alla presidenza per il Partito Socialdemocratico (PSDB), sono entrati nell’Avenida Paulista allegramente e ne sono usciti contestati, il che forse potrà insegnargli qualcosa.

Striscioni dei manifestanti inneggiano al giudice Sergio Moro
T-shirt "In Moro We Trust"

Chi ha ricevuto ovazioni: “Mito!-Mito!-Mito!”, partecipando alla manifestazione di Brasilia è stato il deputato federale Jair Bolsonaro (Partito Social-Cristiano), esponente nazionale dell'estrema destra, che odia i gay e adora le armi.

 

E, al di sopra di tutti, come icona positiva e salvatore della patria la figura onnipresente del giudice Sérgio Moro, su cartelli e magliette. La t-shirt più esibita tra tutte è in inglese "In Moro we trust" (In Moro, noi confidiamo), parodia del motto stampato sul dollaro americano, "In God we trust" (In Dio, noi confidiamo).

 

È importante ascoltare i discorsi dei leader dei movimenti che hanno organizzato la protesta, così come capire con quali partiti si alleano nelle loro aspirazioni politiche. La parte finale dell’articolo scritto dal coordinatore del Movimento Brasil Livre (libero) e giornalista del quotidiano Folha de S.Paulo, Kim Kataguiri, è particolarmente rivelatrice, nella sua analogia tra il momento attuale e la serie tv Power Rangers, per richiamare i brasiliani a partecipare alla manifestazione:

“A sei anni lottavo contro mostri che venivano sconfitti e diventavano giganti. Lula, dopo esser stato sconfitto dallo scandalo "mensalão" (2005) è tornato ancora più forte con quello del petrolio. I Rangers si univano e fondevano i loro veicoli per comporre un robot gigante. Abbiamo bisogno di alcune centinaia di migliaia di brasiliani per montare il nostro”.

Deve pensare di aver “montato” il suo “robot gigante” nelle manifestazioni di domenica.

 

Ascoltando con attenzione i leader delle manifestazioni a favore dell’impeachment della presidente è facile capire che questo nuovo è vecchio. Tanto vecchio quanto la strisciante lotta del bene contro il male.

 

Sarebbe bello credere che la massa verde-gialla nelle strade volesse davvero la fine della corruzione in Brasile. Con la ragione, è impossibile crederlo. Con la fede, sì.

Sarebbe bello se potessimo credere che l’opposizione al governo e al PT avesse un progetto per il paese che non fosse solo un progetto di occupazione e spartizione del potere. O di mantenimento del potere, come nel caso del PMDB (Partito del Movimento Democratico Brasiliano),

che oggi comanda sei ministeri e la vicepresidenza della Repubblica.

 

È necessaria molta fede per crederci dopo la cena del 9 marzo tra leader del partito socialdemocratico e del movimento democratico, a Brasilia.

Tra loro Aécio Neves e José Serra, due dei candidabili alla presidenza del partito socialdemocratico riuniti, tra gli altri, con l’esponente del PMDB Renan Calheiros, presidente del Senato e al centro di sei inchieste nell'ambito dell'inchiesta Lava Jato. La settimana scorsa è stata richiesta al Supremo Tribunale Federale l’apertura di una settima inchiesta.

 

Papabili per la presidenza della repubblica del PSDB che negoziano con Renan Calheiros,  quello che solo poche ore prima aveva consegnato a Lula una copia della Costituzione, testando fino a che punto si  possono manipolare le immagini, schernire e deridere la legge. PMDB e PSDB, insieme, dibattono sulla spartizione del potere dopo la caduta della Rousseff e del PT. O su come dividersi i resti di quelli la cui morte hanno già decretato. Cenando a base di governo e PT e già avventandosi sul dessert, certi che il futuro sia loro, come già è stato in passato.

 

Solo con molta fede si può credere che quest’immagine di spartizione del bottino possa essere il meglio per il paese. O che rappresenterebbe la fine della corruzione. Sabato, tre giorni dopo questa cena e alla vigilia delle manifestazioni, il PMDB ha deciso di dare un "preavviso" alla presidente Dilma Rousseff e al PT, annunciando che abbandonerà il governo per non perdere potere. Sarebbe fondamentale un'opposizione forte e responsabile al governo. Deve sempre esserlo perché una democrazia funzioni. Ma, tra i grandi partiti, non si è sentita una sola voce in grado di andare oltre le proprie passioni personali e mettersi alla guida con ragione e responsabilità.  Quel che si è visto sono stati mercanti disonesti, macellai. Avvoltoi che, credendo di mangiare carogne, non si accorgono che insieme a queste stanno divorando anche le proprie grinfie.

L'accompagnamento coatto di Lula avvenuto il 4 marzo scorso
Il giudice Sergio Moro

Sarebbe bello se potessimo credere che il giudice Sérgio Moro nutra davvero la convinzione che l’accompagnamento coatto di Lula non solo ha rispettato i requisiti della legge, ma ha al contempo evitato possibili scontri, come ha affermato in una dichiarazione. E, ancor di più, che siano state prese delle misure per preservare l’immagine dell’ex presidente durante  la sua conduzione.

 

Che tipo di candore sarebbe necessario a Moro e ai procuratori del Ministero Pubblico Federale per non immaginare che, per il Brasile, quel che sarebbe diventato verità è il fatto che Lula è stato arrestato davanti alle telecamere. E che questo, di per sé, già avrebbe giudicato e condannato l’ex presidente senza giudizio né condanna?

 

Che tipo di innocenza sarebbe necessaria a Moro e ai suoi pari per non capire che “conduzione coercitiva”, termine che non fa parte del vocabolario della popolazione né è di facile apprendimento, sarebbe diventato sinonimo di “prigione”?  E che lo spettacolo, con un tale apparato militare, come se Lula fosse Al Capone, sarebbe stato decodificato come la carcerazione di Lula? Spettacolo, è importante sottolineare, al quale una parte della stampa è stata invitata per garantire la produzione e diffusione dell’immagine dal forte potere simbolico.

 

È necessario che questi uomini di legge (?) siano ingenui, il che non è neanche una buona caratteristica per la professione. O è necessaria la fede, che, come si è visto è più facile da mettere in movimento. È necessaria la nostra fede.

 

Quel che è successo quel venerdì 4 marzo, in cui Lula è stato prelevato da casa da poliziotti federali e portato all’aeroporto di Congonhas, è stato grave. Molto grave. Il giudice e i procuratori dovrebbero essere i primi a evitare in ogni modo questa simbologia.

 

L’immagine di Lula arrestato, per il Brasile intero, non mostra che la legge vale anche per icone popolari e ex presidenti. Ma che la legge non vale neanche per icone popolare e ex presidenti. Che l’abuso e la violazione dei diritti, la cui maggiore rappresentazione sono le migliaia di detenuti in attesa di giudizio sbattuti in carceri medievali, così come i neri umiliati dalla polizia nelle periferie, sono la regola per tutti - o quasi tutti.

Quel che il giudice e i procuratori hanno stimolato con questa scena è stata la voglia di linciaggio. Perché condurre qualcuno a deporre in questo modo, produrre questo tipo di immagine, è anch’esso una forma di linciaggio. E per questo sono stati applauditi da parte della popolazione, perché hanno assecondato l’accanimento e legittimato la voglia di vendetta sotto le mentite spoglie della legge. Quando il rito della legge è sostituito dalla vendetta e questa sostituzione è permessa da un uomo della legge, è molto grave. È proprio in momenti così delicati della storia che le legge deve essere interpretata in maniera più conservatrice. E i suoi agenti devono avere la grandezza di rinunciare alla vanità personale e reprimere le passioni che abitano anche loro.

 

Sérgio Moro e i procuratori, così come i poliziotti federali, non sono eroi né vendicatori. Sono funzionari pubblici. Ed è come tali che devono comportarsi se vogliono essere all’altezza del loro incarico. Da loro ci si aspetta solo che facciano bene - e con discrezione- il loro lavoro.

E che dire dei procuratori del Ministero Pubblico di San Paolo, che hanno chiesto l'arresto di Lula a tre giorni della manifestazione di domenica? E senza alcuna ragionevole giustificazione, oltre le confusioni "filosofiche", che sono diventate barzelletta sui social network, per aver confuso, tra le altre sciocchezze, Hegel con Engels? È importante notare che il titolone, con foto allegata, è stato garantito: "Il Ministero Pubblico di San Paolo chiede la carcerazione di Lula". E il titolo è più forte degli editoriali e degli articoli interni. Qual è la verità che viene fabbricata, e che è stata ripetuta in ogni angolo del paese? Lula è colpevole.

Ma fino a quando non sarà processato e condannato, Lula non è colpevole. O la legge non vale. E attenzione: se la legge non vale per Lula, non vale nemmeno per te o per me.

 

E 'interessante notare ancora che i procuratori di San Paolo, pubblicamente chiamati da alcuni "I tre marmittoni" (The Three Stooges), hanno ottenuto l'unanimità in un momento in cui questa sembrava impossibile. Il mandato di arresto per Lula è stato condannato da tutte le parti. Ma è ragionevole nutrire qualche dubbio rispetto a questa unanimità. Il danno di un mandato di cattura nei titoli dei giornali è stato fatto, la missione già compiuta.

 

Forse è solo furbizia condannare i giudici meno importanti. Non solo per mostrare un’apparente imparzialità, ma principalmente per salvare l’immagine di chi davvero importa, ovvero i giudici dell'Operazione Lava jato. Questo può essere uno di quei casi in cui quelli che si giudicavano furbi, nell'approfittare dell'occasione in cerca di gloria personale, incontrano furbi ancor più furbi di loro. Immediatamente i “tre marmittoni” si trasformano in "buoi da piranha" sui social network. E come hanno sanguinato.

(ndt. "buoi da piranha" espressione popolare brasiliana di origine contadina, riferita ad una pratica in uso tra gli allevatori di bestiame che, al fine di attraversare fiumi infestati da pesci predatori, abbattevano una delle bestie più vecchie o malate e, dopo averla squartata, la gettavano acqua. Così facendo i piranha si avventavano sui resti sanguinanti dell'animale, consentendo loro e al resto della mandria di poter guadare il fiume indenni.)

 

Quando la giustizia invade lo spazio della politica - e la politica chiede adesioni in ragione della fede piuttosto che della ragione, il rischio è grande. Ciò di cui non si rendono conto coloro che richiedono la fede è che il rischio è grande per tutti.

Lula

Sarebbe bello pensare che Lula, che ha personificato il principale progetto di sinistra nel processo di ritorno alla democrazia del paese, che ha incarnato, di fatto, un cambiamento storico in Brasile, essendo il primo operaio a diventare presidente, è solo un perseguitato. Sarebbe tutto più facile se così fosse. Ma lo è solo in virtù della fede, non della ragione.

 

Messo alle corde, Lula ha fatto quello che sa fare meglio, ciò che lo ha reso uno dei presidenti più popolari della storia. Lula è stato Lula, il Lula che parla il linguaggio del popolo, perché capisce il popolo come pochi altri.

 

E, per un momento, la maggior parte di coloro che un tempo hanno creduto in lui, e avevano tutti i motivi per credergli, sono stati tentati, fortemente tentati, di tornare a credere. Perché in fondo credere è molto più facile. Ma la perplessità, quella perplessità che deriva dal pensiero, è andata insinuandosi. Anche se spinta verso il basso, ha insistito nel salire in superficie. E, poco a poco, tutto è diventato chiaro: Lula stava mettendo in scena Lula.

O meglio: il Lula attuale stava mettendo in scena il Lula di prima. Perché il Lula di prima non esiste più, e nemmeno potrebbe, posto che chiunque viene cambiato dalle sue esperienze. E Lula, più di tutti, ha viaggiato molti nuovi mondi da quando è diventato presidente, e anche prima. Così, il discorso si è trasformato in farsa. Non frode, ma farsa. E anche ciò che di vero c'era, perché ovviamente ancora esiste un Lula nel Lula, si è rivelato distorto se visto attraverso le lenti della ragione, del pensiero che raggiunge la conoscenza attraverso il dubbio.

                     

È un dato di fatto che il governo Lula ha favorito l'inclusione sociale di decine di milioni di brasiliani e migliorato la vita di tutti. È un dato di fatto che la povertà e la fame sono diminuite in modo significativo durante il suo governo. È un dato di fatto che il Brasile è cambiato - e cambiato in meglio con Lula. E tutto questo non è davvero poco. Tutto questo è enorme.


Il "mai prima in questo paese", usato da lui e riproposto tanto spesso in forma satirica dagli avversari, è un dato di fatto in molti settori. Ma non è per questo che è indagato. Bensì per quello che potrebbe effettivamente aver fatto. Per ciò che gli indizi indicano che potrebbe aver fatto. Così come altri esponenti del PT sono già stati processati, condannati e detenuti per quello che hanno effettivamente fatto. Questa non è persecuzione, è giustizia. Cercare di confondere, deliberatamente, una cosa con un'altra, è domanda di fede. E malafede.

Per credere nel discorso di Lula è necessario credere come un fervente devoto. E non è da oggi che Lula esorta i suoi elettori a praticare questo tipo di credo. Lula come presidente ha coltivato una mistica, la mistica del padre. E, così facendo, ha ridotto gli elettori in figli - invece che cittadini. Invece di stimolare l'emancipazione e l'autonomia, ha chiesto obbedienza. Invece di mostrare che le politiche sociali sono diritti, le ha presentate come atti di bontà.

 

I figli adoranti non perdonano incrinature nell'immagine del padre. La passione, che è un tipo di fede, in determinate condizioni si trasforma in odio. Lula ha osato molto quando si è lasciato adorare - godendone. Così come non si possono controllare i linciatori, non si controllano gli adoratori.

 

Oggi Lula è simbolicamente linciato da molti che lo veneravano, compresa una parte di coloro cui il suo governo ha migliorato radicalmente la vita. Per questi, egli era un oggetto prima, rimane un oggetto adesso. Solo che prima muoveva passione, e ora odio.

La presidente Dilma Rousseff solidarizza con Lula

Lula, capace di comprendere il Brasile e i brasiliani, come mai nessuno prima, si è perso però un capitolo. E non un capitolo qualsiasi, ma uno chiave: Lula non ha capito le manifestazioni del giugno 2013.

 

Nel lanciare Dilma Rousseff come colei che gli sarebbe succeduta, Lula si era già fatto prendere da un delirio di onnipotenza, era diventato egli stesso un devoto di se stesso. E poche cose sono più pericolose di questo per una personalità pubblica. Al partito, non spettava altro che obbedire. Lula ha eletto Dilma e l'ha rieletta, ma a che prezzo. Ha anche cercato di lanciarla come la "madre dei poveri" e la "madre del PAC" (Programma di Accelerazione della Crescita). Ma Dilma non ha mai avuto questa vocazione. Tra tutte le bugie presentate come verità in questa realtà nella quale un Eduardo Cunha è il presidente della Camera e un Renan Calheiros è presidente del Senato e un Michel Temer è vice presidente del paese, forse è proprio Dilma ad aggiungere un po'di onestà personale alla trama. È lei, così chiaramente confusa, così chiaramente incompetente, così chiaramente irascibile, che finisce, involontariamente, per rivelarsi nelle sue infinite gaffe. Come l'ultima, quando ha negato di considerare l'idea delle dimissioni dicendo: "Io mi dimetto ...."

 

Quando lo scenario crolla e la vita è consumata dal quotidiano, la voglia di credere aumenta. Quanto maggiore è la manipolazione e più fragili le verità, maggiore è la voglia di credere. Tra le credenze che una parte della sinistra sarebbe forse tentata di far proprie c'è che questo è il momento di stare da una parte o dall'altra. C'era almeno una cosa che la dittatura rendeva più facile: o si era contro o si era a favore. Era molto facile sapere chi fossero i nemici - e quelli che non erano nemici erano amici. La democrazia complica le cose, aumentando le sfumature. Anche se più difficile, è molto meglio vedere le cose come in realtà sono: complesse. Nostalgie in bianco e nero possono essere pericolose, ancor di più in un cervello che ha voglia di credenza.

Potrei essere in errore, sbagliare è un rischio di chi osa pensare. Ma rifiuto - e ne rifiuto il concetto - la polarizzazione. Ci sono molti, me compresa, che non stanno né da una parte né dall'altra. E, contrariamente a quanto dicono gli uni e gli altri, non se ne restano nemmeno a guardare. Ci sono posizioni e forti posizionamenti oltre la polarizzazione. Ho già scritto più di una volta che, a mio modo di vedere, tirare in ballo la polarizzazione è una falsificazione in più tra le tante in questo periodo travagliato del paese.

 

Il problema di Lula e del PT sta soprattutto in coloro che non scendono in piazza contro di loro, ma che nemmeno lo farebbero ancora in loro favore. Questo rifiutare sia un lato che l'altro è un comportamento attivo, un posizionarsi.

 

Ripudio quello che Sergio Moro ed i suoi colleghi hanno fatto con Lula non perché è un ex presidente, ma perché ho sempre denunciato gli abusi di poliziotti e forze dell'ordine come pratica d'azione abituale verso le popolazioni più povere e svantaggiate delle periferie, dei campi e delle foreste.

 

Includendo in questa denuncia tutti gli arresti illegali eseguiti durante le manifestazioni di piazza del 2013 per la "tariffa zero" nei trasporti pubblici, del 2014 contro gli sgomberi e le rimozioni forzate promosse in nome della Coppa del Mondo e nel 2015 contro il "piano di riorganizzazione scolastico" del governatore di San Paolo Geraldo Alckmin.

 

Riconosco quanto i governi Lula-Dilma hanno realizzato nel campo della lotta alla povertà e per l'emancipazione sociale di milioni di persone. Così come riconosco il loro ruolo in tema di "quote razziali" e di maggiore accesso alle università, tra gli altri argomenti di fondamentale importanza.

 

Ma ripudio la scandalosa violazione dei diritti nella realizzazione delle grandi opere in Amazzonia, come Belo Monte. Se il sistema di corruzione rivelato dalle testimonianze rese nell'ambito dell'Operzione Lava Jato fosse provata, sarebbe solo una delle punte dell'iceberg. La violenza promossa dalla Norte Energia e dal governo federale, due sfere che poi si mescolavano, è ben documentata da anni. Allo stesso modo ripudio la mancanza di rispetto per i diritti degli indigeni e la scomparsa della riforma agraria dall'agenda di governo.

Osservo con rammarico la mancanza di investimenti in infrastrutture igienico-sanitarie di base, uno dei motivi principali per la diffusione dell'Aedes aegypti e della sua collezione di malattie. Nonché degli investimenti insufficienti in materia di istruzione, il principale strumento di emancipazione di un popolo, ben oltre l'accesso ai beni di consumo. Lamento anche una visione mediocre di città e cittadinanza. E aborro la cecità socio-ambientale di questo governo, più criminale ancora perché viviamo tempi di cambiamenti climatici.

 

Quando Lula e il PT si lamentano degli abusi di Sérgio Moro, dei procuratori e della polizia federale, in alcuni casi hanno ragione, come in quello "dell'arresto coatto". Ma la ragione che hanno non fa scomparire il fatto che questo governo ha messo la Forza Nazionale dell'esercito al servizio della Norte Energia- e delle grande imprese costruttrici - durante l'occupazione del cantiere di Belo Monte da parte delle popolazioni indigene e fluviali e dei movimenti sociali di Altamira, sullo Xingu, così come per reprimere gli indios Munduruku, che protestavano contro la costruzione di dighe sul fiume Tapajós.

Né fa scomparire quanto questo governo ha appoggiato la repressione e l'arresto dei manifestanti durante la Coppa del Mondo 2014. Molto meno puo' far scomparire l'abominio della legge anti-terrorismo, promossa da questo governo, ora sul tavolo di Dilma Rousseff per essere sanzionata.

 

Faccio notare le contraddizioni dei governi Lula-Dilma da molto tempo prima che l'Economist pubblicasse una copertina con il Cristo Redentore che decolla come un razzo (e poi un'altra con lo stesso Cristo che affonda dopo un breve volo). O di quando il Newsweek chiamava la presidente "Dilma Dynamite", avvertendo che: "Con Dilma non si scherza". Già criticavo Dilma Rousseff quando i settori che oggi la linciano la esaltavano.

Concordo con l'antropologo Eduardo Viveiros de Castro quando dice che "Dilma è un fossile".

 

Il mio punto di vista è che abbia una testa cementata nel 20° secolo e non riesca a comprendere nessuno dei grandi dibattiti che sono venuti dopo. Considero Dilma Rousseff un disastro per la sua miopia sui grandi temi del Brasile e del mondo.

 

Malgrado ciò, fino a quando non ci saranno prove che la presidente ha commesso illegalità, non mi sembra possibile sostenere il suo impeachment. Rispetto il voto della maggioranza, anche quando ne sono in disaccordo. Essere un cittadino è essere un adulto - ed essere un adulto significa assumersi la responsabilità del proprio voto e lottare perché venga rispettato il voto degli altri. Se le prove verranno fuori, e solo in quel caso, questo processo può guadagnare legittimità e quindi sostegno.

 

Non starei mai al fianco di quelli che hanno promosso le manifestazioni del 13 marzo. Conosco questi protagonisti da altri decenni. Il costume novità non copre lo stampo di chi è sempre stato nello stesso posto. Quello che rappresentano non ha mai lasciato il potere in Brasile. E, se ascoltati con attenzione, si può sentire il suono di sottofondo: tutto quello che vogliono è mantenere intatti i loro privilegi. Non avverrà con la mia fede.
 

Settori del PT hanno tradito un progetto che non apparteneva solo a loro, ma almeno a due generazioni di sinistra. È necessario costruirne un altro, per altre vie, che passi attraverso tutto ciò che si è appreso dal 2013. In questo momento storico, quello che sappiamo fare non è sufficiente. è necessario trovare altre forme per fare. Tutto ciò che conta è paralizzato da questa falsa polarizzazione. Abbiamo bisogno di muoverci e di fare ciò che conta. Nel nostro quotidiano, giorno dopo giorno.

 

Questa non può diventare una democrazia di facciata. Come ho già scritto, non perché abbiamo la speranza. In questo momento storico, la speranza è un lusso, un superfluo. È necessario fare per imperativo etico.
 

Di fronte alla necessità di costruire un nuovo progetto per il paese, mi sembra necessario resistere alla voglia di credenza.

Preferisco essere atea anche in politica.

Eliane Brum

Eliane Brum

 

è nata a Ijuí, nel sud del Brasile, nel 1966. Scrittrice, reporter e documentarista, vive ad Altamira, città amazzonica nella quale si è stabilmente trasferita nel 2017. Ha vinto moltissimi premi nazionali e internazionali di giornalismo ed è la reporter brasiliana più premiata della storia.

Nel 2021 è stata tra le vincitrici dell'antico e prestigioso Premio Cabot di giornalismo della Columbia University. In Brasile, nel 2019, con il suo libro “Brasil, Construtor de Ruínas: um olhar sobre o país, de Lula a Bolsonaro”, ha vinto il Premio Vladimir Herzog de Anistia e Direitos Humanos, che riconosce il lavoro di giornalisti, reporter fotografici e disegnatori che attraverso il loro lavoro quotidiano difendono la democrazia, la cittadinanza ed i diritti umani.

Collabora con El País e The Guardian. Ha pubblicato un romanzo, "Uma Duas" (2011), ed altri sette libri. Ad ottobre del 2021 ha pubblicato la sua ultima opera "Banzeiro òkòtó: Uma viagem à Amazônia Centro do Mundo". I suoi libri sono stati tradotti in diversi paesi. In Italia ha pubblicato “Le vite che nessuno vede” (Sellerio 2020) ed un suo testo in "Dignità! Nove scrittori per Medici senza Frontiere" (Feltrinelli 2011).

 

Site: elianebrum.com | Twitter, Instagram e Facebook: @brumelianebrum

 

Tutti gli articoli più recenti di Eliane Brum sono pubblicati sul nostro BLOG

Tutti gli articoli di Eliane Brum su questo sito

bottom of page