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25.03.16

Il giudice federale Sérgio Moro è diventato la figura di riferimento nella campagna di impeachment contro Dilma Rouseff. Ma sta forse oltrepassando i limiti?

Il Brasile rischia di riportare indietro l'orologio della democrazia

di Eliane Brum* pubblicato su The Guardian il 18.03.16

traduzione di Carlinho Utopia e Martina Morbidini

 

Giovedì 17 marzo i Brasiliani si sono sintonizzati per assistere al giuramento dell’ ex presidente Luiz Inacio ‘Lula’ da Silva a ministro della Repubblica. Giusto il tempo di andare in bagno o a prendersi un bicchiere d’acqua, ed al loro ritorno la nomina era già stata bloccata da un giudice.

 

È possibile che in questo momento il Brasile sia già stato scosso da altri fatti e che ciò che è accaduto giovedì sera sia già un ricordo lontano. La ragione per cui tutto ciò sta accadendo è che in Brasile si sta attualmente spegnendo il fuoco con altro fuoco.

I pompieri fingono di non sapere che se le fiamme attecchissero nel paese una volta per tutte, brucerebbero tutti senza eccezioni.

 

l Brasile è un paese in tumulto.

I manifestanti a favore dell’impeachment contro la presidentessa sono in tumulto.

I manifestanti contrari all’impeachment sono in tumulto.

Entrambe le parti sono in tumulto contro coloro che non si schierano dall’una o dall’altra parte.

I politici sospettati di corruzione sono in tumulto, mentre accusano altri di rubare. E viceversa. Una parte dei mezzi di informazione ha già smesso di fare domande e ha iniziato a gridare conclusioni scontate.

"I Golpe" vignetta di Carlos Latuff

La sensazione è quella di essere intrappolati in un incubo ricorrente.

Non appena sembra che il paese abbia toccato il fondo, ecco che riesce a sprofondare in nuovi abissi. E da laggiù non fa che continuare a colare a picco.

 

Alla luce della crisi corrente, che non è solo politica ed economica, ma anche d’identità, la cosa peggiore che potrebbe accadere al Brasile sarebbe tornare indietro nel tempo; invece di affrontare i suoi difetti cronici per costruire un futuro, ricreare il passato della nazione a propria immagine e somiglianza.

 

Il rischio che questo possa accadere è sembrato sempre più probabile negli ultimi giorni. E considerata la perdita di fiducia nei politici e nei partiti politici tradizionali, segnati da continue accuse di corruzione, il potere giudiziario sta colmando il vuoto politico.

Il 13 di marzo, quando decine di migliaia di brasiliani sono scesi in piazza per chiedere l’ impeachment di Dilma Rouseff e l’arresto di Lula, qualcosa è finalmente diventato esplicito. Il potere giudiziario ha smesso di essere semplicemente un’istituzione e ha assunto le sembianze del giudice federale Sérgio Moro, il procuratore capo dell’operazione “lava Jato” (ndt. letteralmente ‘autolavaggio’), l’inchiesta sulla corruzione che coinvolge lo stato e l’assegnazione di appalti pubblici a compagnie private. Se i ‘cattivi’ di circostanza fossero Lula e Dilma, il ‘buono’ sarebbe Sérgio Moro, già celebrato addirittura da T-shirts con slogan come “in Moro we trust” (confidiamo in Moro).

Il giudice Sergio Moro

Tutt’altro che una novità, la crisi della rappresentanza politica ha favorito l’ascesa della sua figura più dannosa: quella del salvatore della patria. Il giudice avrebbe potuto rifiutare il ruolo di eroe. Al contrario, non si è lasciato sfuggire l’occasione. Ignorando il suo ruolo istituzionale, ha espresso gratitudine per la “gentilezza del popolo brasiliano” ed ha dichiarato: “è importante che le autorità elette e i partiti politici ascoltino la voce del popolo”.

 

Il giudice vendicatore era già molto popolare quando ha autorizzato l’accompagnamento coatto per la deposizione dell’ex presidente Lula. In realtà, Lula è stato prelevato dalla sua abitazione da agenti della polizia federale, sotto i riflettori dei media già informati dell’ evento.

 

L’immagine costruita per il paese intero è stata quella dell’arresto del più grande leader popolare della storia democratica del Paese. Se è stato arrestato, deve essere stato colpevole. In effetti, l’ex presidente è indagato per corruzione, ma finora niente è stato provato. Nonostante ciò per i brasiliani è stato come se Lula fosse già stato giudicato e condannato.

Il giudice, o “Super Moro” come è stato soprannominato da alcuni brasiliani, ha rinvigorito la fiamma di un'antica tradizione brasiliana: il linciaggio. Invece che giustizia, sempre più lenta rispetto alle aspettative degli antagonisti, ha offerto agli assetati di sangue ciò che desideravano. Nonostante sia stato solo un linciaggio morale, l'immagine simbolica ha prodotto risultati concreti, come dimostrato dalle manifestazioni di piazza.

 

Tre giorni dopo le manifestazioni, il giudice vendicatore ha lasciato diffondere un'intercettazione telefonica tra la presidente e Lula. In questa, Dilma informava Lula che avrebbe presto ricevuto un documento per una nomina ministeriale, che avrebbe potuto usare se ‘fosse stato necessario’.

 

La conversazione è stata immediatamente presentata da alcuni organi di informazione come la prova definitiva che Lula fosse stato nominato ministro per evitare l’ arresto. Una volta ministro, sarebbe potuto essere giudicato esclusivamente dalla Corte Suprema. Il numero di manifestanti fuori dal palazzo del Planalto, sede del governo, e nelle principali città del paese, è aumentato. Da quel momento l’odio tra le due fazioni si è inasprito. Se inavvertitamente capita di passare accanto a una protesta pro impeachment vestiti di rosso, il colore associato al Partito dei Lavoratori (PT), si corre il rischio di essere assaliti e picchiati. Alcuni ho hanno già vissuto sulla propria pelle.

Luiz Inacio ‘Lula’ da Silva

Lula non è stato accusato di coinvolgimento nello scandalo del ‘Lava Jato’, ma è ovvio che Moro lo stia pensando. Il fatto che le intercettazioni fossero state ufficialmente sospese quando la conversazione è stata registrata e poi diffusa è stato considerato dal giudice un banale dettaglio. Così come il fatto che la conversazione avvenisse tra la più alta carica dello stato e un futuro ministro.

 

Moro ha giustificato la fuga di notizie con la portata del contenuto delle registrazioni, secondo il giudice di interesse pubblico: "La democrazia in una società libera richiede che il governato sia al corrente delle azioni dei governanti, anche quando questi agiscono nell'ombra”.

Allo stesso tempo, esperti legali della facoltà di legge dell'Università di São Paulo hanno commentato che le azioni e le dichiarazioni di Sérgio Moro stanno "spianando la strada verso la fine dello stato di diritto democratico”.

 

Lula, Dilma e alcuni settori del Partito dei Lavoratori hanno tradito le speranze di almeno due generazioni di sinistra brasiliana. Nominare Lula ministro dopo essere stato indagato dalla polizia, ammesso che sia considerato legale, è lungi dall'essere eticamente corretto. È possibile che i sospetti su Lula possano essere confermati, così come è possibile che siano fornite prove contro Dilma, che ha visto il processo di impeachment contro di lei muovere i primi passi lo stesso giorno in cui Lula è stato nominato ministro e subito destituito.

 

Se il Brasile vuole fare progressi, tuttavia, la giustizia deve tornare ad essere un'istituzione senza volto. E ogni brasiliano deve avere il diritto di essere giudicato in un'aula di tribunale.

 

Quando distogli lo sguardo da un notiziario per andare in bagno, il rischio non è che il Brasile sarà cambiato quando torni davanti alla TV, ma che ancora una volta sarà come al solito.

 

21.03.16

In politica anche i credenti devono essere atei

Il momento del Brasile, culminato con le manifestazioni del 13 marzo, mostra i rischi di un’adesione spinta dalla fede: bisogna resistere grazie alla ragione

di Eliane Brum*, pubblicato su El Pais il 18.03.16

traduzione di Clelia Pinto e Carlinho Utopia 

Non si costruisce un progetto politico con i fanatici religiosi. Ma l'angoscia, nel Brasile di oggi, è data anche dalla volontà di credere che ci sia qualcosa di vero in un quotidiano segnato dalle mistificazioni. Il pericolo, in questi giorni la cui sceneggiatura sembra essere scritta da esperti di marketing, è che questo credere sia del tutto irragionevole. Si esige fede. Quando la politica domanda consensi mediante la fede bisogna fare molta attenzione.

 

I partiti che stanno lì a spingere verso un credo o un altro, potranno anche pensare che avere una popolazione di devoti che legittimano i loro progetti di potere possa esser loro favorevole. Ma l’adorazione, rapidamente, può volgersi altrove come alcuni devono aver già capito dopo le manifestazioni del 13 marzo. O peggio, verso un idolo di fango qualunque.

 

Svalutare la politica non è mai una buona idea per il futuro. Chi pensa di controllare i devoti, con le loro spirali di odio e amore, non ha imparato nulla dalla storia e nemmeno comprende il troppo umano delle masse urlanti.

Manifestazione del 13 marzo a San Paolo

C’è un’enorme mancanza di fede verso i politici e nei partiti tradizionali, e questo è già un luogo comune. Ma è importante capire che a questa mancanza di fede non si contrappone più la ragione, bensì una voglia feroce di aver fede. Quando i giorni, le voci e le immagini suonano falsi, e a questo si aggiunge un quotidiano corroso, bisogna aggrapparsi a qualcosa. Quando si elegge qualcuno al ruolo di colpevole, uno che simbolizzi tutto il male, si elegge anche un salvatore, uno che simbolizzi tutto il bene. L’adesione mediante la fede, che si manifesti con l'odio o con l'amore, elimina complessità e sfumature, riduce tutto a una lotta del bene contro il male. E questo, che mi sembra sia quel che vive il Brasile oggi, può essere pericoloso. Non solo perché potrebbe condurre verso una dittatura, come alcuni temono, ma verso l'installarsi di una democrazia di facciata, come quella che, per alcuni aspetti, stiamo già vivendo.

Manifestazione del 13 marzo a San Paolo

Una democrazia richiede cittadini autonomi, adulti emancipati, capaci di assumere le responsabilità delle loro scelte e sempre mossi dalla ragione. Quel che si osserva oggi è una voglia di distruzione che attraversa la società e segna persino i piccoli atti quotidiani. Il linciaggio, che marca la storia del paese e l'attraversa, è un atto di fede. Non passa né dalla legge né dalla ragione. Al contrario, le elimina, le sostituisce con l’odio. È l’odio che giustifica la distruzione di colui il quale in quel momento incarna il male. Questo è quel che sta succedendo in Brasile non solo sui social network ma in forme ben più sofisticate. Questo è stato provocato. Chi pensa di controllare i linciatori, non ha capito niente.

 

Forse la cosa più importante da fare, in questo momento così delicato, è resistere. Resistere all’aderire per conto della fede a ciò che appartiene al mondo della politica. Ancorarsi alla ragione, al pensiero, alla conoscenza che si rivela grazie all’esercizio persistente del dubbio. È più difficile, è più lento, è meno sicuro e senza garanzie. Ma è quel che può permettere la costruzione di un progetto per il Brasile che non sia quello della distruzione. A soffrire per primi e di più per la dissoluzione in corso sono i più poveri e i più fragili. È necessario resistere anche come imperativo etico.

 

In politica, anche i credenti devono essere atei.

Ma mai, per lo meno dal ritorno alla democrazia, è stato così difficile vincere questo paradosso: all’enorme mancanza di fede si contrappone una enorme voglia di fede. Una voglia disperata di fede. E questo vale per ogni parte.

Eliane Brum

Eliane Brum

 

è nata a Ijuí, nel sud del Brasile, nel 1966. Scrittrice, reporter e documentarista, vive ad Altamira, città amazzonica nella quale si è stabilmente trasferita nel 2017. Ha vinto moltissimi premi nazionali e internazionali di giornalismo ed è la reporter brasiliana più premiata della storia.

Nel 2021 è stata tra le vincitrici dell'antico e prestigioso Premio Cabot di giornalismo della Columbia University. In Brasile, nel 2019, con il suo libro “Brasil, Construtor de Ruínas: um olhar sobre o país, de Lula a Bolsonaro”, ha vinto il Premio Vladimir Herzog de Anistia e Direitos Humanos, che riconosce il lavoro di giornalisti, reporter fotografici e disegnatori che attraverso il loro lavoro quotidiano difendono la democrazia, la cittadinanza ed i diritti umani.

Collabora con El País e The Guardian. Ha pubblicato un romanzo, "Uma Duas" (2011), ed altri sette libri. Ad ottobre del 2021 ha pubblicato la sua ultima opera "Banzeiro òkòtó: Uma viagem à Amazônia Centro do Mundo". I suoi libri sono stati tradotti in diversi paesi. In Italia ha pubblicato “Le vite che nessuno vede” (Sellerio 2020) ed un suo testo in "Dignità! Nove scrittori per Medici senza Frontiere" (Feltrinelli 2011).

 

Site: elianebrum.com | Twitter, Instagram e Facebook: @brumelianebrum

 

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