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19.04.15

Gli indios e il golpe alla Costituzione

Perché devi leggere questo articolo malgrado la parola indio

di Eliane Brum* pubblicato su El Pais il 13/04/15

traduzione a cura di Clelia Pinto e Carlinho Utopia

 

Settimana Mobilitazione Indigena a Brasilia - foto di Valter Campanato - Agência Brasil
Settimana Mobilitazione Indigena a Brasilia

Gli indios occuperanno Brasília questa settimana. Scrivendo la parola “indio”, perdo una parte dei miei lettori.

È un’associazione immediata: “Indio? Non mi interessa. L’indio è lontano, è seccante, non merita rispetto”. E subito, click fatale, pagina seguente.

Bene, per chi sta ancora qui, un’informazione: più di mille leader indigeni occupano Brasilia dal 13 al 16 aprile in nome dei loro diritti, ma anche dei diritti di tutti i brasiliani. C’è un golpe contro la Costituzione in corso al Congresso Nazionale. Perché si consumi, ciò che è necessario è esattamente il tuo disinteresse.

 

Ricordatevi di questa sigla e questo numero: PEC 215. Quando si parla di PEC 215,  già soltanto la sigla ed il numero allontanano le persone, perché racchiudono una cifra burocratica e un processo legislativo da cui la maggior parte delle persone si sente esclusa. I parlamentari che vogliono approvarla contano su quest’allontanamento, perché la disinformazione della maggioranza dell'opinione pubblica su quel che di fatto sta in gioco è esattamente ciò che può garantire l’approvazione della PEC 215. Se per secoli la parola scritta è stata strumento di dominazione delle élite sul popolo, oggi è questo linguaggio, questa terminologia, che ci rende analfabeti e ci tiene ai margini del centro del potere dove il nostro destino viene deciso. È necessario superare questa barriera e appropriarsi dei codici per partecipare al dibattito che cambia la vita di tutti. L’alienazione, questa volta, ha un prezzo impagabile.

Settimana Mobilitazione Indigena a Brasilia

Cos’è una PEC?

PEC sta per Proposta di Emendamento della Costituzione.

In teoria, uno strumento per migliorare la Costituzione del 1988. Quel che questa PEC, la 215, vorrebbe fare è, riassumendo, trasferire dall’Esecutivo (ndt. il governo federale) al Congresso il potere di demarcare i territori indigeni, i territori quilombolas (ndt. Quelle QUILOMBOLAS sono comunità formate da schiavi africani fuggiti dalle piantagioni in cui erano prigionieri nel Brasile all'epoca della schiavitù. Attualmente si contano oltre 1500 comunità presenti in varie aree del paese)  e le Unità di Conservazione (ndt. aree di protezione ambientale).  

 

Solo che il riassunto, come sappiamo, non spiega mai tante cose.

Il diritto al loro territorio ancestrale è una garanzia fondamentale della Costituzione perché la terra è parte essenziale della vita degli indios. Senza la terra si condannano interi popoli alla morte fisica (genocidio) e culturale (etnocidio).

 

Questo spiega perché, nel 2012, un gruppo di Guarani Kaiowá del Mato Grosso do Sul chiese, in una lettera ai bianchi, che li si dichiarasse morti. Preferivano esser dati per estinti piuttosto che espulsi un’altra volta.

“Chiediamo al Governo e alla Giustizia Federale di non decretare l’ordine di espulsione, ma di decretare la nostra morte collettiva e seppellirci tutti qui. Chiediamo, una volta per tutte, di decretare la nostra estinzione/decimazione totale, oltre che di inviare vari trattori per scavare una grande fossa dove gettare e seppellire i nostri corpi. Questo è la nostra richiesta ai giudici federali”.

 

Senza la terra dei suoi avi, un indio non è. Non esiste. I Guarani Kaiowá, una delle etnie che versano nelle situazioni più drammatiche in Brasile e forse nel mondo, testimoniano il suicidio di un adolescente ogni sei giorni, in genere impiccato a un albero, per la mancanza di prospettiva di vivere dignitosamente nel territorio dei suoi antenati. Ecco perché questo gruppo ha affermato di preferire la morte all’ennesima espulsione, perché così, per lo meno, uomini, donne e bambini avrebbero potuto morire assieme e nel luogo a cui appartengono.

Il pacchetto maligno

Il potere di demarcare i territori indigeni, quilombolas e le unità di conservazione non è stato attribuito a caso all’Esecutivo, dalla Costituzione brasiliana,  come in un gioco di dadi, in cui la fortuna determina il risultato e basta. È stato attribuito in base a criteri chiari, studiati a fondo, con l’obiettivo di riconoscere diritti e proteggere l’interesse di tutti i brasiliani.

 

È l’Esecutivo che ha la struttura e le condizioni tecniche per compiere il rituale necessario alla demarcazione, dalle equipes specializzate negli studi di accertamento dell’occupazione tradizionale fino alla risoluzione di conflitti e agli eventuali indennizzi. Allo stesso modo, è evidente che la creazione di aree di preservazione sia parte strategica delle politiche sociali e ambientali di qualsiasi governo.

 

Quando i parlamentari tentano di sottrarre il potere di demarcazione all’Esecutivo per farlo proprio, quel che stanno tentando di fare non è migliorare la Costituzione ma attentare ad essa. 

Settimana Mobilitazione Indigena a Brasilia - foto di Valter Campanato - Agência Brasil

In pratica, la PEC 215 è solo la peggiore tra le varie strategie in corso per mettere fine ai progressi della Costituzione in tema di rispetto della preservazione dell’ambiente e ai popoli indigeni, quilombolas e alle popolazioni fluviali agroestrattiviste (ndt. che uniscono alla pratica di un'agricoltura sostenibile, la raccolta e l'estrazione di prodotti forestali nativi) che lo proteggono.

 

In pratica, se la PEC215 sarà approvata, la cosa più probabile sarà la paralisi del processo di demarcazione di terre indigene e quilombolas, così come il blocco delle unità di conservazione. È in questo punto che la PEC 215 passa a minacciare anche il diritto fondamentale di tutti i brasiliani a un ambiente ecologicamente equilibrato, e, più in generale, a minacciare il diritto alla vita.

 

La PEC215, alla quale sono stati aggiunte furbescamente varie appendici pericolose, è diventata una sorta di "pacchetto maligno". Con essa si vorrebbe anche determinare che solo i popoli indigeni che si trovavano “fisicamente” sulle loro terre quando la Costituzione è stata promulgata nel 1988 avrebbero diritto ad abitarle. Così, tutti quelli che sono stati strappati dalle loro terre tanto dai grilleiros (ndt. latifondisti senza scrupoli che occupano vaste aree di terra abusivamente e con la forza) quanto dai progetti di occupazione promossi dallo stato, sarebbero ora definitivamente espulsi.  Una proposta di autentica legalizzazione del crimine, poiché gli indios, strappati con la forza alle loro terre, sarebbero "colpevoli" di non essere presenti in esse, perdendole così per sempre. Sembra una cosa da matti, ma è esattamente quel che si sostiene. Investigando i crimini della dittatura, la Commissione Nazionale per la Verità, ha constatato che, in soli dieci tra tutti i gruppi, 8.350 indigeni furono assassinati. La riparazione attraverso la demarcazione e il recupero ambientale dei loro territori furono considerate misure minime e indispensabili per il ristabilirsi della giustizia. Se passasse la PEC 215, da un lato non ci sarebbe più demarcazione delle terre indigene, dall’altro sarebbe ritirata la protezione a quelle che già erano state garantite.

Settimana Mobilitazione Indigena a Brasilia - foto di José Cruz - Agência Brasil

Ma c’è qualcosa di ancora peggio nella PEC 215:

essa intende far spazio ad una serie d'eccezioni circa l’usufrutto esclusivo dei popoli indigeni, come gli appalti ai non indigeni, la permanenza di nuclei urbani e proprietà rurali, la costruzione di autostrade, ferrovie e acquedotti. Tenta anche di rivedere i processi di demarcazione in atto, così come d'impedire l’ampliamento delle terre già demarcate.

 

C’è anche il rischio che la PEC 215 apra spazio, se approvata, a modifiche secondo i nuovi criteri ai territori già assegnati.

Per capirci: se la PEC 215 sarà approvata quel che può succedere è che, da un lato, non ci sarà demarcazione di nuovi terre; dall’altro verrà ridotta la protezione a quelle che già erano garantite.

 

Le mani dietro al golpe.

Questo è un mondo perfetto per chi? Per me, per te? Non credo. Ma lo è per alcuni. Lo è sempre, per alcuni. Basta vedere chi sta al comando della commissione della PEC 215 per capire. 

Tutta la coordinazione è della cosiddetta “bancada ruralista” (ndt. raggruppamento parlamentare trasversale ai partiti che mette insieme i deputati vicini agli interessi dei grandi latifondisti). Ma è importante capire di quali ruralisti stiamo parlando, per non rafforzare una falsa opposizione con i produttori rurali del brasile, cioè con quelli che di fatto hanno interesse a portare alimenti sulle tavole dei brasiliani. Un mondo senza terre indigene né unità di conservazione andrebbe bene per chi produce alimenti per il paese? Mi sembra di no. I produttori agricoli intelligenti e che hanno a cuore il bene comune, siano essi piccoli o grandi, sanno di aver bisogno d’acqua per produrre. Se necessitano d’acqua per produrre, necessitano anche di una foresta in piedi. Se necessitano di una foresta in piedi, necessitano di terre indigene e aree di conservazione.

 

E allora, se questo mondo non va bene né a me né a te né a chi produce alimenti, a chi va bene? È sempre possibile trovare una pista seguendo il denaro. In questo caso, il denaro per il finanziamento delle campagne elettorali. Secondo il Portal de Notícias Socioambientais (Portale delle Notizie Socio-ambientali), in un’analisi fatta a partire da dati del Tribunal Superior Eleitoral (Tribunale Superiore Elettorale), per lo meno venti dei quasi cinquanta deputati nella commissione speciale che analizza la PEC 215 sono finanziati da grandi imprese dell'agrobusinnes, del settore minerario e dell’energia, da imprese costruttrici e da banche. Alcuni di questi parlamentari hanno ricevuto, da soli, più di un milione di reais da imprese legate a questi segmenti.

 

Questo è un capitolo importante per capire i perché. Tanto le terre indigene quanto le unità di conservazione sono terreni pubblici. Ai popoli indigeni spetta l’usufrutto di queste terre. Le unità di conservazione sono parchi e foreste nazionali, stazioni ecologiche, riserve estrattiviste o biologiche, rifugi di vita silvestre etc. che appartengono a tutti noi e che sono creati per impedire la devastazione ambientale e per proteggere la biodiversità, strategica per lo sviluppo sostenibile.

Quindi come mettere mano a queste terre pubbliche e protette (o che ancora dovranno esserlo), terre che son patrimonio di tutti i brasiliani, affinché diventino private, per lo sfruttamento e il profitto di pochi? 

Eliminando la protezione a questi territori.

E come fare?

Attentando alla Costituzione.

Come?

Travestendo questo golpe in azione legale attraverso il processo legislativo.

Si unisca a tutto questo un governo indebolito, che gode di uno scarsissimo appoggio polare e addirittura delle sue basi e un Congresso che è il più conservatore dal ritorno alla democrazia.

 

Fatto, ecco date le condizioni per il crimine.

Settimana Mobilitazione Indigena a Brasilia - foto di Valter Campanato - Agência Brasil

Se poi il Supremo Tribunale Federale dovesse considerare incostituzionale l’emendamento, saranno già passati anni e tanto la privatizzazione di ciò ch’è pubblico quanto la devastazione di ecosistemi come la foresta amazzonica e il Cerrado (ndt. grande savana tropicale, una ecoregione del Brasile. Il Cerrado è caratterizzato da una grande biodiversità di fauna e flora. Secondo il WWF è la savana più ricca biologicamente nel mondo) già saranno fatti compiuti. E il Brasile, come si sa, è il paese del fatto compiuto. Basta seguire la traiettoria di Belo Monte che, tra illegalità costantemente denunciate, varie azioni mosse dal Ministero Pubblico Federale e sospetti di tangenti pagate dalle imprese su cui si è indagato nell’operazione Lava Jato (ndt. Lava Jato (Autolavaggio) Inchiesta ancora in corso della magistratura brasiliana che ha portato alla luce un sistema generalizzato di tangenti versate da almeno un decennio dalle principali imprese edilizie del paese a responsabili della Petrobras, il colosso petrolifero nazionale a maggioranza statale), diventa un fatto compiuto sulle rive dello Xingu. Quando arriverà finalmente al Supremo Tribunale, sarà troppo tardi.

 

Gli indigeni, questi stranieri nativi

La conversione del pubblico in privato, a beneficio dei grandi interessi privati di sfruttamento della terra e delle risorse naturali del Brasile, è quel che è sul tavolo in questo gioco di gente potente. Spetta alla popolazione brasiliana informarsi e partecipare al dibattito, se giungerà alla conclusione che non è questo il progetto di paese che desidera. A causa dei popoli indigeni, dei quilombolas, delle popolazioni fluviali? Mi sembra che sarebbe un motivo più che sufficiente. Sulle popolazioni indigene, in particolare, quelli che hanno grandi interessi per le ricchezze delle terre che occupano, diffondono abitualmente preconcetti del tipo che "costituirebbero un ostacolo allo sviluppo” oppure che "non si tratterebbe di veri indios". Ma sarebbero ostacolo a quale sviluppo e sviluppo per chi? E che categoria sarebbe questa del “vero indio”?

 

Vale la pena esaminare i preconcetti da vicino, per capire che non reggono ad un confronto con la realtà. Per cominciare, non esiste “l’indio”, ma un’enorme diversità nella misura in cui ognuno dei 242 popoli indigeni elencati dall’Instituto Socioambiental dà senso a quel che chiamiamo mondo e si vede nel mondo, o nei mondi. Il Brasile è leader nel ranking dei paesi più "mega-diversi" al mondo,  in gran parte per via dei popoli indigeni.  Per paesi “mega-diversi” si intendono quelli in cui si concentra la maggior biodiversità al mondo e pertanto la conservazione dell’intero pianeta.

Questa è la maggior ricchezza del Brasile, ma l’avidità di pochi e l’ignoranza di tanti la minaccia e distrugge, mettendo a rischio la vita di tutti.

 

I popoli indigeni, guardiani della biodiversità, sono messi a tacere anche dalla semplificazione, a volte solo stupida, in genere malintenzionata, di farli sembrare una cosa sola, appiattiti come “ostacoli allo sviluppo”.

Si stima che ci fossero più di mille popolazioni indigene prima che gli europei sbarcassero in Brasile. Oggi, parte dei parlamentari dell’attuale Congresso non lesina gli sforzi per completare il genocidio iniziato 500 anni fa.

Settimana Mobilitazione Indigena a Brasilia - foto di José Cruz - Agência Brasil

Quando la Costituzione ha assicurato i diritti alle popolazioni indigene, nel 1988, non ha creato nuovi diritti, ha solo riconosciuto diritti preesistenti, visto che loro stavano qui prima di qualsiasi europeo.

 

Legalmente, non si tratta di “dare” terra alle popolazioni indigene, ma soltanto di demarcare la terra ch’è sempre stata loro. In questo processo, di responsabilità dell’Esecutivo, bisogna indennizzare quei latifondisti e agricoltori che possiedono titoli legali di proprietà (e quel “legali” qui va ben sottolineato), dati dai governi nei tanti progetti di occupazione, gente che non ha la minima colpa di esser stata spedita insieme alle famiglie in territori indigeni.

 

Per la Costituzione, lo stato aveva una scadenza di cinque anni per demarcare le terre indigene. Come sappiamo, ne sono trascorsi più di venticinque e decine di terre non sono state ancora demarcate.

Come sappiamo inoltre, l’illegalità fa male al paese: i conflitti per la terra che si diffondono per il Brasile, seminando cadaveri, sono il risultato del ritardo nel rispettare la Costituzione, che la bancada ruralista prova ancora ad attentare. È ancora il caso di ricordare che i diritti fondamentali sono inseriti nella Costituzione così che la maggioranza di turno non possa minacciarli in nome dei suoi interessi. L’importanza di questa protezione è più chiara se facciamo attenzione all’attuale composizione del Congresso: ci sono decine di ruralisti e nessun indigeno.

 

Nel capitolo “menzogne e manipolazioni” sui popoli indigeni ci sono almeno tre linee di "non pensiero" abbastanza popolari all'interno del Congresso e fuori di esso.

 

Ci sono gli “arretratisti”, gente che ha studiato e colleziona diplomi, ma preferisce ignorare l’antropologia e pensatori della statura di Lévi Strauss per definire e considerare gli indios “arretrati”. Secondo loro,  esiste una catena evolutiva unica ed inesorabile tra l'età della pietra e l’Ipad. Non riescono - o non vogliono- avere la minima elasticità mentale per comprendere la molteplicità di scelte e di cammini possibili nella traiettoria di un popolo. Tanto meno riescono a percepire che sono queste le differenze che formano la ricchezza dell'esperienza umana. E, chiaro, preferiscono "dimenticarsi" di ciò che il tipo di "progresso" che loro difendono ha causato al pianeta.

 

La seconda linea di "non pensiero" è quella dei “controllori dell’autenticità”. Quando la classificazione degli indigeni come “arretrati” e “ostacoli allo sviluppo” non regge, si tratta di dire che sì, gli indios hanno diritti, ma solo quelli “veri”. Ci sarebbero quindi gli illegittimi, quelli che parlano portoghese, usano il cellulare e a cui piace guardare la tv o andare in macchina. In questa logica al di sotto del limite della stupidità, anche i brasiliani che parlano inglese, vanno a Disneyland, preferiscono il rock al samba e, ultimamente, hanno cominciato a tifare squadre di calcio europee, potrebbero essere considerati falsi brasiliani e perdere tutti i loro diritti. In quest’epoca della storia umana, con tanta produzione di  conoscenza, c’era da aspettarsi un po’ più di sofisticatezza nella comprensione di quel che rende qualcuno ciò che è.

 

Quando le due bugie precedenti vengono smascherate, appaiono i “buoni samaritani” per salvare la loro Patria. Questi ritengono che chi ama la foresta è l'antropologo e l'ambientalista e che i sogni degli indigeni, il vero sogno, nell’ “intimo del suo intrinseco” sia di vivere nelle nostre meravigliose favelas e periferie, con gli scarichi fognari a cielo aperto sulle porte e la polizia che spara, a spese di Bolsa Família e cesta básica (ndt. forme di aiuto statale, economiche ed alimentari, varate dal primo governo Lula per le fasce più povere della popolazione). Questo sarebbe l’apice dell’evoluzione: da “falso indio” a “povero brasiliano legittimo. Chi, in fondo, potrebbe mai resistere a un tale progresso nella vita?

 

Un golpe alla Costituzione qui e uno lì e questi buoni samaritani arrivano al massimo: aiutano gli indios che non sono riusciti a uccidere a diventare poveri e così il problema è risolto, perché mai dare terra all’indio, se già non ne esistono più? L’ignoranza viene battuta solo dalla malafede. Ma è con preconcetti del genere, abilmente diffusi e manipolati, che si tenta di trasformare gli indios in una specie di stranieri nativi, come se quelli “di fuori” fossero quelli che da sempre sono stati dentro. Questa xenofobia al contrario sarebbe soltanto un non sense, se non fosse totalmente perversa ed al servizio di obiettivi ben determinati.

Settimana Mobilitazione Indigena a Brasilia - foto di José Cruz - Agência Brasil

Aderire o pensare?

C’è molta terra per pochi indios? No. Come dice l’ambientalista Márcio Santilli: “C’è molta terra per pochi latifondisti”.

 

Secondo il censimento del 2010 dell’IBGE (Istituto Brasiliano di Statistica), ci sono 517.000 indios in meno di 197 milioni di ettari di terre indigene, equivalente al 12,5% del territorio brasiliano. E dove sono queste terre? Più del loro 98% si trovano nell’Amazzonia Legale - e meno del 2% fuori. I 46.000 maggiori proprietari terrieri, secondo il censimento agricolo e zootecnico dell’IBGE, sfruttano un’area maggiore di questa: più di 144 milioni di ettari.

 

Sulla realtà della concentrazione fondiaria nel paese, che continua a crescere, il Registro di Immobili Rurali dell’Incra (Istituto Nazionale di Colonizzazione e Riforma Agraria) mostra che le 130.000 grandi proprietà rurali private rappresentano quasi il 50% di tutta l’aria privata registrata. 

I quattro milioni di minifondi equivalgono, sommati, a un quinto di questo: 10% dell’area totale registrata. In un’intervista al telegiornale della Globo, il ricercatore Ariovaldo Umbelino de Oliveira, coordinatore di  Atlas da Terra, ha affermato che quasi 176 milioni di ettari sono improduttivi in Brasile. Fare attenzione ai numeri è già un buon inizio per pensare, anziché semplicemente aderire.

 

Manca spazio per la produzione di alimenti nel paese? Tutto indica di no. In un paese con questa quantità di terre destinate all'agricoltura ed alla zootecnia e con questa concentrazione di terreni nelle mani di pochi, affermare che il problema dello sviluppo sono i popoli indigeni non è più ridicolo di quanto affermato da Katia Abreu, la latifondista che sostiene non esista più latifondo in Brasile e oggi ministra dell’Agricoltura: “il problema è che gli indios sono usciti dalla foresta  e sono passati ad occupare l’area di produzione”. Gli indios, questi invasori del mondo altrui.  Ma è così che la storia viene distorta nel raccontarla alla popolazione.

 

Quindi sì, rispettare i diritti dei popoli indigeni già sarebbe un motivo sufficiente per lottare contro la PEC 215. Ma la PEC 215 non minaccia solo i popoli indigeni e le popolazioni tradizionali. Minaccia la vita di tutti i brasiliani. E perché? Perché se c’è ancora della foresta in piedi lo dobbiamo ai popoli indigeni e alle popolazioni tradizionali, sono loro l'ultimo ostacolo sulla strada di un tipo di sfruttamento che, dopo esser stato consumato e aver portato profitti nelle mani di pochi, lascerà a tutti noi il costo della distruzione.

 

E negli stati del sudest, finalmente capiamo, attraverso il collasso del sistema idrico, qual è il costo della devastazione. Finalmente iniziamo a capire quanto stiamo pregiudicando la nostra vita quotidiana distruggendo la foresta e contaminando i fiumi. Non è più qualcosa di soggettivo, un’astrazione, ma qualcosa di ben concreto. Non è più un futuro distante, ma è qui e ora. Non sono più i nostri nipoti, ma i nostri figli che soffriranno e già soffrono per questo pianeta masticato. Così come noi stessi. E non siamo che all'inizio.

 

Lottare democraticamente per impedire l’approvazione della PEC 215 non è un comportamento altruista, non è uno sforzo per rispettare i diritti indigeni, non è qualcosa che facciamo perché siamo persone in gamba, gente perbene. Impedirla è rispondere al nostro istinto di sopravvivenza in un mondo dove i mutamenti climatici sono probabilmente la maggior sfida della storia umana su questo pianeta, ch’è l’unico che abbiamo e che distruggiamo.  Se il golpe alla Costituzione si concretizzerà, l’ambiente in Brasile perderà buona parte delle barriere che ancora impediscono la devastazione, riunendo le condizioni perché questo avvenga e accelerando la corrosione della vita.

 

C’è molta attenzione da pare della stampa e della popolazione nei confronti delle manifestazioni di piazza in Brasile.

Quel ch’è curioso è che quando sono gli indios a occupare lo spazio pubblico, nonostante tutto il loro colore e la loro affascinante diversità, corrono il rischio di diventare automaticamente invisibili. Il loro dolore, la loro morte e le loro parole sembrano non esistere o esistere solo al diminutivo. Lo sguardo dei non indios li attraversa. Questa volta, anche se per puro istinto di sopravvivenza, converrebbe guardarli. Ma, chiaro, possiamo sempre concludere che ciò che è meglio per tutti noi sia vivere circondati dal cemento, dallo smog e da  fiumi di cacca.

 

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Eliane Brum

Eliane Brum

 

è nata a Ijuí, nel sud del Brasile, nel 1966. Scrittrice, reporter e documentarista, vive ad Altamira, città amazzonica nella quale si è stabilmente trasferita nel 2017. Ha vinto moltissimi premi nazionali e internazionali di giornalismo ed è la reporter brasiliana più premiata della storia.

Nel 2021 è stata tra le vincitrici dell'antico e prestigioso Premio Cabot di giornalismo della Columbia University. In Brasile, nel 2019, con il suo libro “Brasil, Construtor de Ruínas: um olhar sobre o país, de Lula a Bolsonaro”, ha vinto il Premio Vladimir Herzog de Anistia e Direitos Humanos, che riconosce il lavoro di giornalisti, reporter fotografici e disegnatori che attraverso il loro lavoro quotidiano difendono la democrazia, la cittadinanza ed i diritti umani.

Collabora con El País e The Guardian. Ha pubblicato un romanzo, "Uma Duas" (2011), ed altri sette libri. Ad ottobre del 2021 ha pubblicato la sua ultima opera "Banzeiro òkòtó: Uma viagem à Amazônia Centro do Mundo". I suoi libri sono stati tradotti in diversi paesi. In Italia ha pubblicato “Le vite che nessuno vede” (Sellerio 2020) ed un suo testo in "Dignità! Nove scrittori per Medici senza Frontiere" (Feltrinelli 2011).

 

Site: elianebrum.com | Twitter, Instagram e Facebook: @brumelianebrum

 

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