18.07.16
Esausti-e-di corsa-e-dopati
Nella società della prestazione siamo riusciti nella grande impresa di ospitare il padrone e lo schiavo nello stesso corpo
di Eliane Brum, pubblicato su El Pais il 04.07.16
traduzione di Clelia Pinto e Carlinho Utopia
Ci crediamo tanto liberi in quanto proprietari di tablets e cellulari, in internet andiamo in qualunque posto, lottiamo anche per le cause di paesi dell’altro lato del pianeta, partecipiamo a proteste globali e quasi non ci rendiamo conto di creare una post-sottomissione.
O un tipo più pericoloso e insidioso di sottomissione. Ci siamo sforzati liberamente e con grande tenacia per raggiungere la meta di lavorare ventiquattro ore al giorno, sette giorni su sette. Nessun capitalista aveva sognato tanto. Il capo ci raggiunge in ogni dove, a ogni ora. I lavori da fare non finiscono mai. Non c’è più uno spazio per il lavoro e uno per il tempo libero, non c’è più nemmeno casa. Tutto si confonde.
Internet è stata usata per varcare anche le frontiere del mondo interno, che ora è un fuori. Stiamo sempre, in qualche modo, lavorando, facendo networking, discutendo (o litigando), intervenendo, tentando di non perdere niente, principalmente la notizia ordinaria.
Ci consumiamo animatamente, a ritmo di emoticons. E, così, perdiamo solo l’anima. E siamo riusciti in un'impresa senza precedenti: ospitare il padrone e lo schiavo nello stesso corpo.
Poiché nell’epoca dell’accelerazione gli anni non iniziano né finiscono, si uniscono soltanto gli uni agli altri, come i mesi e i giorni, la metà del 2016 è arrivata quando sembrava fosse marzo. Siamo esausti-e-di corsa. Esausti-e-di corsa. Esausti-e-di corsa. E la cattiva notizia è che continueremo esausti-e-di corsa perché esausti-e-di corsa è diventata la condizione umana di quest’epoca. E ci siamo già resi conto che questa condizione umana un corpo umano non la regge.
Il corpo è quindi diventato un ostacolo, un’appendice scomoda, un non-farci-caso che si ammala, diventa ansioso, si deprime, va in panico. E così dopiamo questo corpo non all'altezza che si contorce nell'essere sottomesso a una velocità non umana. Siamo diventati esausti-e-di corsa-e-dopati. Perché solo dopati si può continuare esausti-e-di corsa. Per lo meno finché non riusciremo a liberarci da questo corpo che è diventato una barriera. Il problema è che il corpo non è un altro, il corpo è quel che chiamiamo io. il corpo non è un limite, ma la condizione stessa. Il corpo è.
I click di internet
sono i remi delle antiche galere.
Remate... Cliccate...
I click di internet sono diventati i remi delle antiche galere. Remate remate remate. Cliccate cliccate cliccate per non rimanere indietro e morire. Ma il presente, a questa velocità, è un continuo passato. Se internet sembra aver accolto il mondo, e migliaia di chilometri possono essere ridotti a un click, come dicono i luoghi comuni e alcune pubblicità, il nostro mondo interno è rimasto a oceani di distanza da noi.
Connessi al pianeta intero, siamo sconnessi dall’io e anche dall’altro. Incapaci di alterità, l’altro è diventato qualcuno da distruggere, da bloccare o addirittura da cancellare. Parliamo molto, ma da soli. Sono rare le conversazioni, la rete è diventata parte di un interminabile discorso autoreferenziale, un delirio narcisista. E narciso è un io senza io. Perché per esistere l'io è necessario l’altro.
C’è tanta informazione a disposizione, ma forse stiamo diventando degli idioti. Perché ci manca la contemplazione, ci manca il vuoto che conduce alla creazione, ci mancano i silenzi. Ci manca persino la noia. Senza esperienza non c'è conoscenza. E forse una parte dell’attivismo è un’illusione di attivismo, perché privo dell’altro. Forse quel che crediamo essere attivismo è, al contrario, passività.
Un nuovo tipo di passività, piena di urla, di certezze e di punti esclamativi. Gli spasmi sono diventati routine e, vivendo a spasmi, uno spasmo annulla l’altro spasmo, che annulla l’altro spasmo.
Quando tutto è grido, non c’è più grido. Quando tutto è urgenza, niente è urgenza. Alla fine del giorno che non finisce resta l’illusione di aver lottato tutte le lotte, di esser intervenuti in tutti i processi, di aver protestato contro tutte le ingiustizie. Gli spasmi scaricano, esauriscono, consumano. Ma non muovono. Placano, ma non muovono. Intorpidiscono, ma muovono, forse?
Forse quel che consideriamo attivismo è un nuovo tipo di passività
Su questo tema c’è un piccolo libro, prezioso, chiamato suggestivamente "Società della stanchezza". Il suo autore è il filosofo Byung-Chul Han, un coreano radicato in Germania che è diventato professore universitario di filosofia e studi culturali a Berlino. In questo libro, Han dialoga criticamente con pensatori come Alain Ehrenberg, Giorgio Agamben, Michel Foucault, Hanna Arendt, Walter Benjamin e Friedrich Nietzsche, tra gli atri. Tuttavia, il mio dialogo con lui è a mio rischio e pericolo. Sulla nostra nuova condizione, Han dice:
"La società del lavoro e la società della prestazione non sono società libere. Generano nuove coercizioni. La dialettica dello schiavo -padrone è presente, non in ultima istanza, in quella società in cui ognuno è libero e sarebbe anche capace di avere tempo libero per il piacere. Porta, al contrario, a una società del lavoro in cui lo stesso padrone è diventato schiavo del lavoro. In questa società coercitiva, ognuno porta con sé il proprio campo di lavoro. La specificità di questo campo di lavoro è che siamo allo stesso tempo prigionieri e guardiani, vittime e aggressori. Così, finiamo con lo sfruttare noi stessi. Con ciò, lo sfruttamento è possibile anche senza padrone".
Siamo arrivati a questo: lo sfruttamento anche senza padrone, visto che lo abbiamo introiettato. Chi è il peggior padrone se non quello che abita dentro di noi? In nome di termini falsamente emancipatori, come imprenditorialità o di eufemismi perversi come “flessibilità”, cresce il numero di lavoratori “autonomi”, liberi solo di ammazzarsi di lavoro. Gli autonomi sono automi, programmati per frustarsi da soli. E anche gli impiegati si “autonomizzano” perché la giornata di lavoro ormai non finisce più. Tutti lavoratori colpevoli di non riuscire a produrre ancora di più, in un’immagine di sé in frantumi, in cui si suppone la prestazione sia limitata solo perché il corpo è un inconveniente.
Gli autonomi sono automi programmati per
frustarsi da soli
Secondo questo filosofo, la società del ventunesimo secolo non è più disciplinare come nella visione di Foucault, ma una società della prestazione. Anche i suoi abitanti non si chiamano più “soggetti di obbedienza” ma “soggetti di prestazione e produzione”. Sono imprenditori di se stessi.
Se la società disciplinare era una società di negatività, la deregolamentazione crescente la sta abolendo. L’affermazione Yes we can, secondo Han, esprime il carattere di positività della società della prestazione. Al posto di “proibizione”, “comandamento” o “legge” entrano “progetto”, “iniziativa” e “motivazione”. Così non è un caso che la depressione sia la malattia di quest’epoca. La società disciplinare è dominata dal “no”. La sua negatività genera pazzi e delinquenti. La società della prestazione, verso la quale ci siamo “evoluti”, produce al contrario depressi e falliti. La società della prestazione, nelle parole di Han, produce infarti psichici.
Il depresso sarebbe l’animal laborans che sfrutta se stesso. È aggressore e vittima nello stesso tempo. La depressione irromperebbe nel momento in cui il soggetto della prestazione non può più potere. Infine, se tutto è possibile, com’è che io non posso? L’imperativo del tutto è possibile è, per paradosso, annichilente.
Perché ovviamente non tutto è possibile. Non c’è niente di più limitante che credere di non avere limiti. E vivere come se poter potere dipendesse soltanto dalla (libera) iniziativa di ognuno. E il non poter potere, avere dei limiti, fosse quindi un fallimento personale.
Il depresso è l'invalido
della guerra interiore
della società
della prestazione
Han suggerisce che la depressione è stanchezza di fare e potere. Solo una società che crede tutto sia possibile è capace di generare il lamento deprimente del niente è possibile. “Non poter più potere porta all’autoaccusa distruttiva e a un’autoaggressione”, dice il filosofo. “Il soggetto di prestazione si trova in guerra con se stesso. Il depresso è l’invalido di questa guerra interiore".
L' auto-sfruttamento
è più efficiente che lo sfruttamento dell’altro,
perché va di pari passo
con il sentimento di libertà
La depressione, quindi, sarebbe l’ammalarsi di una società che soffre di eccesso di positività.
“Il soggetto di prestazione è sottomesso solo a se stesso. È in questo che si distingue dal soggetto di obbedienza. La caduta dell’istanza dominatrice non lo porta alla libertà. Al contrario, fa sì che libertà e costrizione coincidano. Così il soggetto di prestazione si consegna alla libera coercizione di massimizzarla. L’eccesso di lavoro e prestazione si acutizzano in un auto-sfruttamento. Questo è più efficiente che lo sfruttamento dell’altro, perché va di pari passo con il sentimento di libertà. Lo sfruttatore è allo stesso tempo lo sfruttato. Aggressore e vittima non possono più esser distinti".
Così siamo sempre più liberi di lavorare e agire ventiquattro su ventiquattro, sette giorni su sette. Abbiamo raggiunto la paradossale libertà di essere schiavi. Poiché il corpo si ribella, manifestandosi con depressioni, insonnie, crisi d’ansia e panico, si dopa il corpo. Ma il corpo non è un’altra cosa, non è neppure la casa dell’anima. Il corpo è. Così, nello stesso tempo in cui denunciamo l’oppressione, la zittiamo.
Così come la relazione schiavo-padrone non può esser messa in discussione, ancor meno se entrambi occupano la stessa persona, il doping compie la funzione di censurare le proteste del mondo interiore, o delle rovine che ne rimangono. Compie, a livello interno, il ruolo dei lacrimogeni e dei proiettili di gomma della Polizia Militare durante la manifestazioni contro lo status quo. Ma qui è lo stesso individuo quello che reprime, censura e mette a tacere e che è represso, censurato e messo a tacere.
Essere multi-tasking, altra dimensione dello stesso fenomeno, è visto come una capacità in questo momento storico, una specie di miglioramento evolutivo che renderebbe la persona meglio adattata alla sua epoca. È domanda da questionari, qualità presentata da persone che vendono se stesse, esigenza indicata dai guru del successo. Presto diventerà altamente sovversivo, disorganizzante, il fatto che qualcuno dica: “No, non sono multitasking. Mi dedico a una cosa per volta”.
Han, come altri filosofi contemporanei, discorda da quest’idea - o da questa propaganda. O, ancora, da questa trappola. Per lui, la tecnica temporale e di attenzione multi-tasking non rappresenta affatto un processo di civiltà. Si tratta, invece, di una retrocessione. L’eccesso di positività si manifesta anche come eccesso di stimoli, informazioni e impulsi. Modifica radicalmente la struttura e l’economia dell’attenzione. Con ciò, frammenta e distrugge l’attenzione. La tecnica del multi-tasking non è una conquista civilizzatrice ottenuta dall’essere umano di questo tempo storico. Al contrario, è ampiamente disseminata tra gli animali allo stato selvaggio:
Essere multitasking
è retrocedere
ad uno stato selvaggio
“Un animale occupato nell’esercizio della masticazione del suo cibo si deve occupare anche, allo stesso tempo, di altre attività. Deve fare attenzione, mentre mangia, di non finire lui stesso per esser mangiato. Deve allo stesso tempo vigilare la prole e tenere d’occhio il/la proprio partner. Nella vita selvaggia, l’animale è obbligato a dividere la sua attenzione in diverse attività. Per questo, non è capace di approfondimento contemplativo, neanche nel mangiare o nel riprodursi. L’animale non può perdersi nella contemplazione di ciò che gli sta davanti, perché deve elaborare, allo stesso tempo, ciò che gli sta dietro”.
La contemplazione è civilizzatrice. L’ozio è creativo. Ma entrambi sono stati eliminati dal riempimento ininterrotto del tempo umano con compiti e stimoli simultanei. Tu svolgi un compito e rispondi al cellulare, rispondi a un WhatsApp mentre cucini, mangi seguendo Netflix e insultando qualcuno su Facebook, chiedi a tuo figlio come è andata a scuola scorrendo Twitter, guidi la macchina postando una foto su Instangram, fai un lavoro mentre mandi una mail relativa a un altro lavoro e così via. Due, tre, vari compiti allo stesso tempo. Come fosse un guadagno e non una monumentale perdita, un’involuzione.
Per mancanza
di riposo,
la nostra civiltà
cammina
verso la barbarie
Siamo tornati al modo selvaggio. Nietzsche (1844-1900), già ai suoi tempi, richiamava l'attenzione sul fatto che la vita umana finisce in un’iperattività mortale se da essa si elimina l’elemento contemplativo: “Per mancanza di riposo, la nostra civiltà cammina verso una nuova barbarie”.
Di fronte alla vita nuda, indica Han, reagiamo con iperattività, con l’isteria del lavoro e della produzione. L’acuirsi iperattivo dell’attività fa sì che questa diventi un’iperpassività. Aderiamo a qualunque tipo di impulso e stimolo. Invece della libertà, nuove coercizioni. Solo attraverso la negatività del fermarsi interiormente, il soggetto d’azione può dare una dimensione allo spazio della contingenza che sfugge a una mera attività. Viviamo, dice, in un mondo molto povero di interruzioni, povero di intermezzi e di tempi intermedi.
Così, quel che sembra movimento può essere solo adesione alla paralisi. L’attivo, o l’iperattivo, forse è di fatto un iperpassivo. Se c’è un solo tempo, quello dell’avvenimento, o se tutto è avvenimento, di fatto non avviene nulla. In parte, spiega la sensazione che sia tutto effimero, che lo spasmo di un secondo prima, che ha prodotto urla e furore, diventi distante, sostituito da un altro che pure produce urla e furore e che dopo un secondo già non ci sarà più. E già non si sa più esattamente per cosa si sta gridando e infuriando, ma l’imperativo è continuare a gridare e a infuriarsi.
In quest’attualità isterica, l’irritazione sostituisce l’ira. Tornando alle parole di Han: “L’ira è una capacità che è in condizione d'interrompere uno stato, e far sì che ne inizi uno nuovo. Oggi, sempre più, cede il posto all’irritazione o all’innervosirsi, che non possono produrre nessun cambiamento decisivo”.
La positività di quest’epoca ha, a mio modo di vedere, uno sdoppiamento in questa crisi così particolare del Brasile. Siamo stati costretti a essere “ottimisti” o a scegliere questa o quella parte per “recuperare l’ottimismo”. Come se la questione fosse ottimismo/pessimismo, o come se l’ottimismo fosse una qualità morale.
Questa positività mi sembra qui giungere a una relazione con la speranza, come ho già scritto in questo spazio. Come se lo speranzoso avesse una qualità morale in più, cosa che lo collocherebbe uno o più livelli più in alto degli altri. E come se questo momento fosse una questione di speranza o di riscatto della speranza, al di là delle manipolazioni di marketing più ovvie. Poco importa l’ottimismo/pessimismo, poca importa la speranza. Il baratro è molto più profondo.
Bisogna ascoltare
il malessere
e non
farlo tacere
Si deve ascoltare il malessere e non metterlo a tacere. Viverlo come un processo che ci interroga, viverlo come movimento. Farsi carico dei limiti senza confonderli con lo stare paralizzato. Non c’è onnipotenza, non c’è tutto è possibile, non c’è yes we can. Non essere onnipotenti non significa essere impotenti. È l’illusione della potenza totale che porta all’impotenza. C’è potenza nel dire no e c’è potenza nel non fare. Come Bartelby, il personaggio di Herman Melville, intuì, “preferisco non fare” può essere un atto di resistenza e di riconnessione con la propria umanità.
In un altro paragone con le crisi del Brasile attuale, richiama l'attenzione la necessità di risposte immediate, di spiegazioni istantanee, di certezze. In alcuni momenti più acuti, una parte della stessa stampa sembra essersi dimenticata di fare domande. L’esigenza di risposte immediate, risposte che non passino attraverso l’indagine e l’interrogazione, non porta a nessuna risposta. Perché non c’è la domanda. Perché il pensiero è assente, sostituito dal riflesso e dall’imperativo di riempire il vuoto con le parole. Non c’è merito nella velocità, i nulla immediati continuano a essere solo dei nulla. O qualcosa di peggio.
Il computer
è stupido
perché non è capace
di esitare
Come indica Han, nonostante tutto il suo impegno, il computer è stupido, nella misura in cui gli manca la capacità di esitare. Se il computer conta in maniera più rapida del cervello umano e accoglie un’immensità di dati è anche perché è libero da qualsivoglia alterità. È, per eccellenza, una macchina positiva. Rendere questa positività una qualità da imitare è una stupidaggine alla quale abbiamo aderito.
Da anni sentiamo tanti lì in giro che ripetono: "Sono stanc@". La stanchezza, dice Han, è più del meno io. Ma la tragedia è che “il meno nell’io si manifesta come un più per il mondo”.
E così, la società della stanchezza, in quanto società attiva , si sdoppia lentamente in una società del doping.
E porta a un "infarto dell’anima".
Signori e schiavi allo stesso tempo, abbiamo un'opportunità fino a quando ci sarà anche un ribelle. Ascoltarlo è necessario. Anestetizzarlo, no.
Eliane Brum
è nata a Ijuí, nel sud del Brasile, nel 1966. Scrittrice, reporter e documentarista, vive ad Altamira, città amazzonica nella quale si è stabilmente trasferita nel 2017. Ha vinto moltissimi premi nazionali e internazionali di giornalismo ed è la reporter brasiliana più premiata della storia.
Nel 2021 è stata tra le vincitrici dell'antico e prestigioso Premio Cabot di giornalismo della Columbia University. In Brasile, nel 2019, con il suo libro “Brasil, Construtor de Ruínas: um olhar sobre o país, de Lula a Bolsonaro”, ha vinto il Premio Vladimir Herzog de Anistia e Direitos Humanos, che riconosce il lavoro di giornalisti, reporter fotografici e disegnatori che attraverso il loro lavoro quotidiano difendono la democrazia, la cittadinanza ed i diritti umani.
Collabora con El País e The Guardian. Ha pubblicato un romanzo, "Uma Duas" (2011), ed altri sette libri. Ad ottobre del 2021 ha pubblicato la sua ultima opera "Banzeiro òkòtó: Uma viagem à Amazônia Centro do Mundo". I suoi libri sono stati tradotti in diversi paesi. In Italia ha pubblicato “Le vite che nessuno vede” (Sellerio 2020) ed un suo testo in "Dignità! Nove scrittori per Medici senza Frontiere" (Feltrinelli 2011).
Site: elianebrum.com | Twitter, Instagram e Facebook: @brumelianebrum
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