20.08.15
Quando la periferia sarà il posto giusto al momento giusto?
Il grande massacro di São Paulo, mostra che le parole cominciano a uccidere prima della morte e poi continuano a uccidere i vivi
di Eliane Brum pubblicato su El Pais il 17.08.15
traduzione di Clelia Pinto e carlinho utopia
Le foto del 13 agosto mostrano donne che lavano via il sangue, come in film dell’orrore di "serie B". Se il fiume rosso scorre per i gradini, le parole riecheggiano oltre la lunga fila di cadaveri. Uccidono lentamente, come proiettili al rallentatore, che penetrano i corpi, si frantumano dentro e lacerano gli organi.
Giorno dopo giorno, giorno dopo giorno. Si uccide e si muore anche nel linguaggio.
Le parole zittiscono i morti aldilà della morte. E mettono a tacere i vivi, anche quando pensano di gridare.
1. “Si è trovato nel posto sbagliato, al momento sbagliato”
“Lui non aveva mai avuto niente a che fare con il crimine.
Era uno tranquillo, amava la famiglia.
Si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Si chiamava Deivison perché a mio padre piacevano le Harley-Davidson.”
(Jorge Henrique Lopes Ferreira, 31 anni, tecnico di cellulari, sul fratello, Devison Lopes Ferreira, 26 anni, assassinato il 13 agosto. Il padre è stato ucciso diciotto anni fa, nello stesso quartiere, nello stesso modo, un crimine mai chiarito)
"Thiago era disoccupato da un mese, ma era una bravissima persona,
e purtroppo si è trovato nel posto sbagliato, al momento sbagliato”
(Alessandra de Lima, 37anni, casalinga, sul fratello Thiago Marcos Damas, 32 anni, assassinato.)
IL MASSACRO DI OSASCO E BARUERI A SAN PAOLO
Nella notte di giovedì 13, uomini incappucciati organizzati in gruppi di sterminio hanno giustiziato 18 persone e ferite altre sei in una serie di attacchi avvenuti in poco più di due ore nelle città di Osasco e Barueri. Le modalità delle escuzioni e le armi usate, tutte in dotazione alla polizia e all'esercito, lasciano pochi dubbi sugli autori delle stragi.
La più grande esecuzione di massa avvenuta nella Grande San Paolo dai tempi del massacro del carcere di Carandiru, sarebbe avvenuta per vendicare le morti, avvenute nei giorni scorsi, di un poliziotto militare (nel corso di una rapina ad un distributore di benzina) e di una guardia municipale. Tra tutte le vittime, solo sei avevano qualche precedente penale, tutti gli altri erano incensurati il che dimostra l'intento di rappresaglia delle azioni. Leggi tutto
"Dovrò tornare alla normalità, continuare la mia vita. Ho perso un compagno e un amico.
Per quanto lo desideri, purtroppo non posso cambiare casa. È stato il caso di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato”
(Jean Fábio Lopes, 34 anni, aiutante in uno snack bar, sull'amico Eduardo Oliveira dos Santos, 41anni, artigiano, assassinato)
"È stato molto rapido e molto tragico. Stava nel posto sbagliato al momento sbagliato."
(Alberto Martins, sul fratello, Fernando Luiz de Paula, 34 anni, imbianchino, assassinato)
"Stava nel posto sbagliato e al momento sbagliato” è stato il commento più frequente dei familiari dei diciotto morti, e sei feriti, nella periferia di Osasco e Barueri, nella Grande São Paulo, nel più grande massacro del 2015. L’espressione spiega una massima: “In periferia c’è il nero ladro, il bianco ladro e chi sta nel posto sbagliato al momento sbagliato". La frase incolpa, anche se indirettamente, chi muore.
Ma perché, alla fine, stava dove non doveva stare, fuori, per strada? Non aveva motivo per star lì. Per non stare nel posto sbagliato al momento sbagliato, bisogna chiudersi in casa. Se si fosse chiuso in casa, sarebbe vivo. Commenti del genere si sentono continuamente nelle periferie, tanto da diventare un cliché. Sempre più succubi, coloro che non vogliono morire si rassegnano ad abbandonare gli spazi pubblici.
È la vita degli schiavi, sognata dai loro padroni: da casa all’autobus affollato, dall’autobus affollato al lavoro, dal lavoro all’autobus affollato, dall’autobus affollato a casa. La gente povera non ha bisogno di divertimento o il divertimento è vedere la tv a casa, preferibilmente programmi in cui presentatori, alcuni con ambizioni elettorali, criminalizzano i poveri e offrono l’immagine dei loro corpi sull’altare mediatico. Chi frequenta i bar sa che può morire, è questo il messaggio. Come nella notte del 13 agosto, come in tante altre notti.
Essere messo con le spalle al muro
da uomini incappucciati
e ucciso a colpi di pistola
non è mai una possibilità
nel luogo giusto
al momento giusto
Come può essere il posto sbagliato e il momento sbagliato un bar vicino casa prima di mezzanotte? Ma è così. Se c’è un posto sbagliato e un momento sbagliato, si suppone ci sia allora un posto giusto e un momento giusto. Ma la periferia non è mai il posto giusto. Mentre nei quartieri residenziali di São Paulo, nel grande centro, ogni bar è il posto giusto, ogni ora è quella giusta. Anche la notte del 13 agosto.
Nessuno degli uomini e delle donne di classe medio-alta che affollavano i bar di Vila Madalena o di Itaim Bibi, la stessa notte alla stessa ora, ha mai dovuto pensare alla possibilità che uomini incappucciati potessero entrare e ucciderli.
Né che le donne delle pulizie il giorno dopo, loro che vengono dall’altro lato del fiume, dovessero lavar via il loro sangue. Non è necessario pensare a questo, non ha alcun senso. Essere messo con le spalle al muro da incappucciati e giustiziato a colpi di pistola non è mai la possibilità del posto giusto e al momento giusto.
Trovandosi di fronte ai corpi di figli, padri, mariti, fratelli, cosa dicono i poveri? Nel confrontarsi con il cadavere di chi amano steso sull’asfalto, in attesa che venga raccolto, o steso su una barella nel cortile dell’Istituto Medico Legale, perché non c’è spazio per tutti nei frigoriferi, cosa affermano? “Stava al posto sbagliato, nel momento sbagliato”.
È la frase con cui la madre cerca di convincere la società, per l’ultima volta, che suo figlio era innocente e non meritava d’essere ucciso a colpi di pistola. In seguito, l’assurdo si naturalizza in un articolo di giornale e diventa normalità. “La maggior parte dei familiari ha detto che le vittime lavoravano e non vedevano motivo per le esecuzioni”.
Questo è quasi tanto disperante quanto la morte, perché anch'esso un tipo di morte. E uccide altrettanto.
2. È stato simile agli altri crimini, perché non considerarlo?
Qual è il numero di omicidi che la società paulista e brasiliana in genere considera motivo di allarme? Qual è il numero di poveri e di neri giustiziati che tocca la nostra sensibilità selettiva? Di quanti corpi c’è bisogno per fare un titolo di giornale?
Sappiamo che, se abitava nei quartieri "bene", un solo morto già provoca scandalo, così come deve essere per una vita distrutta dalla violenza. In periferia, ce ne vogliono molti.
Abbiamo appena scoperto che 18 è un numero che impressiona. Perché lo stato lo consideri massacro sono necessari almeno tre morti. Soltanto nei primi sei mesi di quest’anno ce ne sono stati dieci nello stato di São Paulo e 38 morti, secondo i dati dell’Istituto Sou da Paz, basato su numeri ufficiali, ottenuti attraverso la legge di accesso all’informazione.
Quest’anno, il numero di massacri è raddoppiato, in confronto al precedente, e quello delle vittime, triplicato
Secondo il sito Ponte, agenzia indipendente di reportage, specializzata in diritti umani e sicurezza pubblica, le statistiche sono ancora peggiori. Solo nella Grande São Paulo sono state 72 le vittime dei massacri nel 2015.
Il 7 marzo, per esempio, dieci persone sono state uccise nel Parque di Santo Antônio, nella zona sud della capitale. Il 18 aprile, otto sono stati uccisi nel ritrovo della tifoseria organizzata Pavilhão Nove, a Osasco, mentre si preparavano per assistere a una partita tra Corinthians e Palmeiras.
Ma è stato necessario un numero maggiore, 18, per provocare una commozione che già inizia a essere dimenticata.
È sconcertante il commento di un amico di una vittima che è stata tolta dalla lista. Sandro Alfonso, 34 anni, commesso, è stato ucciso con quattro colpi a Itapevi, città vicina a Osaco e Baruri, la stessa notte.
Sarebbe stato il diciannovesimo, ma il governo ha ritenuto che il caso non avesse relazione con il massacro.
“È stato un caso simile alle altre esecuzioni, perché non considerarlo?”, si è lamentato un amico rimasto anonimo. La speranza di questa famiglia era che il “loro” morto fosse incluso nel crimine che fa notizia, perché non fosse un altro morto ignorato, il che moltiplica le possibilità di un omicidio impunito.
È uscito dalla lista visibile, è entrato nella lista più lunga di chilometri, degli invisibili. Il suo omicidio ha perso l’interesse pubblico e mediatico. Strappato alla vita, difficilmente sarà strappato dal silenzio della morte. Quando la speranza di chi piange un morto è che entri nella lista dei massacri, la società è marcia.
Quando la speranza
di chi piange un morto
è che entri
nella lista di un massacro,
la società è marcia
3. Era un lavoratore
“Era un lavoratore, era uscito a comprare uno spuntino per la sorella e non è tornato."
(Zia di una delle vittime assassinate)
“Non aveva mai avuto problemi con la polizia, gli piaceva stare a casa con la moglie, che è incinta di tre mesi”
(Viviane de Lima, 27 anni, sul fratello, Rodrigo Lima da Silva, 16 anni, ucciso)
"Non si è mai messo in nulla di sbagliato”
(Tânia Cristina César, sul fratello, Eduardo Bernardino César, 26, assassinato)
“Non usava droghe, era un lavoratore”
(Ângela Maria Pereira, sul marito, Jonas de Santos Soares, 33 anni, operaio, tre figli piccoli, assassinato)
La disperazione dei familiari nell'affermare che il loro figlio, padre, marito, amico morto, steso a terra, con proiettili nel corpo, sanguinante, non era un "delinquente" ma un "lavoratore" appare nei video e nelle dichiarazioni ai giornali.
L’affermazione espone, allo stesso tempo la deformazione e l’ultimo atto d’amore. In questa dichiarazione è implicito che, fosse stato un delinquente, ci sarebbe stato motivo per ucciderlo. Quando la stampa enfatizza che dodici su diciotto delle vittime non avevano precedenti penali, è possibile giustificare il risalto dato all’informazione, perché renderebbe, in tesi, più distante l’ipotesi di regolamenti di conti della criminalità organizzata, così come di morti con identità prestabilite e non arbitrarie, come pare sia stato. Ma riproduce anche l’idea, ampiamente diffusa in tutti gli strati sociali, che i delinquenti possono – e devono- morire, sebbene in Brasile non esista ufficialmente la pena di morte.
Se avesse o meno precedenti penali, è in fondo, la stessa domanda degli assassini del 13 agosto. Nell’arrivare nel locale, secondo i testimoni, gli incappucciati chiedevano chi avesse precedenti penali. In alcuni casi, avrebbero ucciso quelli che avevano risposto di aver commesso qualche reato. In seguito, sono i giornalisti a domandarlo. Subito dopo, è la volta della popolazione che commenta la tragedia, e decide a partire da quest’informazione se si può o meno provare compassione.
La logica riprodotta da tutti gli attori di questa storia macabra è quindi la stessa. E il fatto che lo sia è avvilente. E se tutti e diciotto i morti avessero avuto precedenti penali, questo avrebbe significato che il massacro sarebbe stato meno terribile o che l’assassinio di alcuni può essere tollerato dalla società, se non addirittura desiderato? Come il commento del figlio adolescente di un’amica, di rientro da una delle scuole d’élite più incensate di São Paulo, eccitato dalla notizia “Mamma, la polizia ha ucciso venti ladri a Osasco!”
Nel gesto di mostrare
il libretto di lavoro,
si consuma
tutto il fallimento del Brasile
È doloroso testimoniare la disperazione dei familiari, nello spiegare, spiegare e spiegare di nuovo ai giornalisti che il loro morto era un "lavoratore", era "per bene", era "di famiglia". Difendono con forza la memoria di quelli che amavano, riproducendo così tutto il discorso che li annichilisce da secoli.
Come giornalista, una delle scene che più mi lacera e che si ripete quasi tutte le volte che metto piede per la prima volta in casa di qualcuno che abita in periferia è quando mi mostrano il libretto di lavoro per provare che non sono delinquenti.
Uomini e donne sofferenti, segnati da una vita dura, che sanno di essere nati con addosso un sospetto per il fatto d’essere poveri e ancora di più se oltre a questo sono neri. E io, bianca e giornalista, sono decodificata come un’autorità a cui porgere il libretto di lavoro. Rifiuto, dico che non serve, ripeto che non devono. Insistono. Prendo il libretto, muoio un poco. In questo gesto si consuma tutto il fallimento del Brasile.
4. Quando muore un poliziotto, puoi star certo che entro quindici giorni ci sarà un massacro. Non cambierà mai.
La pista principale delle indagini sul massacro del 13 agosto punta sulla vendetta, da parte di poliziotti militari, per la morte di un collega durante una rapina, avvenuta la settimana precedente, nella stessa regione. Anche nella maggior parte degli altri massacri, c’è il sospetto del coinvolgimento dei poliziotti.
Il 13 agosto prova, ancora una volta, che le periferie pauliste vivono in uno stato di terrore, provocato da una guerra non dichiarata. In essa, cadono i più poveri, la maggior parte dei quali neri
Nel 2014 la Polizia Militare paulista ha ucciso 926 persone, in servizio e non, e 75 poliziotti sono stati uccisi. È il maggior tasso di letalità della polizia dal ’95, quando i dati hanno iniziato a essere divulgati dal governo. Con le informazioni del Centro di Intelligence e Affari Interni della Polizia Militare di São Paulo, il reporter André Caramante ha dimostrato che la polizia militare uccide una persona ogni dieci ore a São Paulo, cinque ogni due giorni. Soltanto nel primo semestre di quest’anno, secondo il quotidiano Folha de São Paulo, 358 persone sono state uccise nello stato da poliziotti militari e civili in servizio e 11 poliziotti sono morti.
Gli omicidi commessi fuori dall'orario di servizio sono chiamate, nel gergo poliziesco, “cassa 2”, come mostra un altro giornalista specializzato in sicurezza pubblica, Bruno Paes Manso. Su blog e social network, i poliziotti esibiscono foto di sospetti e stimolano la violenza non come eccezione ma come regola. Come comportamento e forma di agire, aperta e quotidiana.
È comune che la morte dei sospetti, i “mala”, derivato da “malacos" (ndt. comunemente si utilizza questa espressione in senso dispregiativo per indicare soggetti "poco raccomandabili" che abitano nelle periferie e nelle favelas, amanti dei generi musicali hip hop e rap, che vestono in stile rapper), sia divulgata e commemorata su WhatsApp: “Il mala buono è così, è il mala morto”. O, mesi prima: "I tre vermi, poco fa, sono stati stesi sul marmo gelato dell’Istituto di Medicina Legale. Delinquenti pericolosi. Complimenti ai poliziotti coinvolti nella vicenda"
Il governatore di São Paulo, Geraldo Alckim (PSDB) afferma che la cosa più importante è fare luce sulla serie di crimini e arrestare gli assassini del massacro del 13 agosto. Non basta.
Se sarà provato che gli autori della notte più violenta di São Paulo sono poliziotti, è ora di affrontare con serietà la necessità di rifondare le polizie. Ed è già tardi, visto che il coinvolgimento dei poliziotti, specialmente militari, in gruppi di sterminio, è ben conosciuto.
È necessario
fondare una polizia
che rispetti la legge
e protegga i cittadini,
invece di assassinarli
Una polizia militare in un regime democratico è già in sé una contraddizione.
La deformazione strutturale pregiudica i buoni poliziotti - sì, esistono - e immerge la popolazione delle periferie nell’orrore quotidiano, vittime di una guerra non dichiarata ufficialmente, messa in atto da agenti dello stato, la cui routine di vendetta è esibita senza pudore sui social network, e tollerata da chi dovrebbe punirli. È necessario affrontare la struttura. È necessario formare una polizia che applichi la legge e protegga i cittadini, invece di assassinarli.
O si farà così, oppure si dovrà ammettere lo stato di terrore espresso nella frase “Quando muore un poliziotto, puoi star certo che entro quindici giorni ci sarà un massacro. Non cambierà mai”. L’affermazione è stata fatta da una donna di cinquant’anni, sarta, amica di una delle vittime. Tre anni fa ha perso il figlio in un altro massacro in città. Se lei già sa qual è il modus operandi di una parte della polizia, come fa a non saperlo il governo e perché non agisce preventivamente?
La cosa più brutale di questa frase, però, è la certezza di questa donna che non cambierà nulla e che i suoi continueranno a morire. Questa certezza è un dato della sua vita, tanto immutabile come il ruotare della terra attorno al sole. E ancora più brutale di questo è che ha ragione. Non c’è nessun fatto da presentarle, né ora né in passato, per provare che sì, qualcosa cambierà. Ci sono promesse. Fatti, ancora no.
Il discorso che ha attraversato la sepoltura delle vittime può essere riassunto nella frase di una donna, sorella di Eduardo Bernardino César. Durante la sua sepoltura ha detto: "Se sono stati davvero poliziotti militari, non ci saranno indagini, perché la polizia non corre dietro alla polizia." Questa è la credibilità tra i più poveri della polizia e del governo di São Paulo. Una convinzione costruita e provata nel quotidiano. Giorno dopo giorno.
5. Mio figlio è morto. Continuerò a farmi i fatti miei
Il massacro dentro al massacro, la morte dentro alla morte, l’assassinio oltre la carne, è la frase di una madre. Zilda Maria de Paula ha perso Fernando, 34 anni, era un imbianchino, stava prendendo una birra con gli amici, poco prima delle 21, in un bar di Osasco, quando gli incappucciati sono entrati e lui è caduto di fianco ad altri sette. È stata la prima esecuzione della notte del 13 agosto. Sua madre ha detto ai giornalisti di Folha de São Paulo e Agora: "So soltanto che mio figlio è morto. Non metterò magliette con la sua foto, non chiederò giustizia. Continuerò a farmi i fatti miei, perché so che nessuno mi aiuterà."
Senza ponti:
da un lato del fiume, proteste contro la violenza della polizia in periferia; dall’altro lato,
selfies con una delle polizie che più uccide al mondo
Domenica scorsa, è stata l’unica famiglia a partecipare ad una manifestazione contro il genocidio nelle periferie, a Osasco, che ha riunito appena una cinquantina di persone, in uno scenario fatto di strade piene di buchi, pochi alberi rachitici e case di finti mattoni. Molti familiari delle vittime del 13 agosto si sarebbero rifiutati di partecipare per paura delle ritorsioni della polizia.
Zilda sta programmando una messa per il settimo giorno: “Sto accettando la morte di mio figlio, ma non il modo in cui è avvenuta. Era alto due metri. Ha potuto proteggersi solo mettendosi le mani in testa e nascondendosi dietro una macchina. Voglio riunire chi è unito dallo stesso dolore. Fare qualcosa di che non dia motivo ai poliziotti di reprimere."
Vicino a lei, una donna che non ha voluto identificarsi, ha affermato: “Quando finirà questa manifestazione che succederà? Tornerà il silenzio”
6. Epilogo: sull’Avenida Paulista selfies con la polizia
In quello stesso pomeriggio di domenica, 16 agosto, ad alcuni chilometri da lì, c’era un’altra scena. Le persone “per bene” che manifestavano per l’impeachment della presidente Dilma Rousseff rinnovavano la loro ammirazione e fiducia verso una delle polizie che più uccide al mondo.
Stringevano le mani dei poliziotti, si congratulavano per il buon lavoro. Poi scattavano selfies. Abbracciate ai poliziotti militari, con il gesto dell’ok. Non si sono registrate proteste contro il massacro di tre giorni prima.
Sull'Avenida Paulista, strada simbolo della grandiosità di São Paulo, occupata da circa 135.000 manifestanti, la maggior parte dei quali uomini auto-dichiaratisi bianchi e con istruzione superiore, secondo la ricerca dell'istituto di statistica Datafolha, era come se nulla fosse accaduto dall’altro lato del fiume, i ponti fatti saltare in aria anche da quest’altro gesto.
Era come se non esistessero diciotto corpi attraversati dai proiettili e pianti da decine di persone nei cimiteri delle periferie della Grande São Paulo.
I cadaveri non sono stati ricordati né per compassione né per decenza. Neppure per vergogna. Il sospetto che il massacro sia stato commesso da poliziotti non sembra aver toccato i manifestanti. La maggioranza non sembrava neanche consapevole dell’oscenità del suo gesto di chiedere un selfie, dimenticando o fingendo di dimenticare che ogni poliziotto lì rappresenta non se stesso ma un’istituzione segnata da una letalità criminale.
Giustiziare gente povera nelle periferie a colpi d'arma da fuoco non sembra essere considerato come corruzione dai manifestanti della Paulista. Ha il suo senso. È questa polizia che garantisce che muoiano solo quelli del "posto sbagliato", del "momento sbagliato". Le persone “per bene” stanno al "posto giusto", nel "momento giusto". Protestano contro la corruzione vestiti con le magliette della corrotta CBF (Confederazione Brasiliana di Calcio), e anche questo ha il suo senso. E sfilano sulla Paulista per garantirsi di poter continuare a stare sempre nel posto giusto, al momento giusto.
Eliane Brum
è nata a Ijuí, nel sud del Brasile, nel 1966. Scrittrice, reporter e documentarista, vive ad Altamira, città amazzonica nella quale si è stabilmente trasferita nel 2017. Ha vinto moltissimi premi nazionali e internazionali di giornalismo ed è la reporter brasiliana più premiata della storia.
Nel 2021 è stata tra le vincitrici dell'antico e prestigioso Premio Cabot di giornalismo della Columbia University. In Brasile, nel 2019, con il suo libro “Brasil, Construtor de Ruínas: um olhar sobre o país, de Lula a Bolsonaro”, ha vinto il Premio Vladimir Herzog de Anistia e Direitos Humanos, che riconosce il lavoro di giornalisti, reporter fotografici e disegnatori che attraverso il loro lavoro quotidiano difendono la democrazia, la cittadinanza ed i diritti umani.
Collabora con El País e The Guardian. Ha pubblicato un romanzo, "Uma Duas" (2011), ed altri sette libri. Ad ottobre del 2021 ha pubblicato la sua ultima opera "Banzeiro òkòtó: Uma viagem à Amazônia Centro do Mundo". I suoi libri sono stati tradotti in diversi paesi. In Italia ha pubblicato “Le vite che nessuno vede” (Sellerio 2020) ed un suo testo in "Dignità! Nove scrittori per Medici senza Frontiere" (Feltrinelli 2011).
Site: elianebrum.com | Twitter, Instagram e Facebook: @brumelianebrum
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