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06.07.16

Il colpo (di stato) e i colpiti (O golpe e os golpeados)

Il golpe fondatore del Brasile si ripete, e la carne colpita è negra, è indigena. La barbarie in un paese in cui le parole non dicono più niente

di Eliane Brum, pubblicato su El Pais il 20.06.16

Traduzione di Carlinho Utopia, collaborazione: Kennedy Da Silva, Sara De Vidi, Laura Recanatini

 

Sheila da Silva è scesa dalla favela Querosene per comprare tre patate, una carota e del pane. Ha sentito degli spari. Non si è fermata. Ha proseguito, perché gli spari non le sono estranei. Sheila da Silva ha cominciato a risalire la collina della favela quando i vicini le hanno detto che una pallottola vagante aveva incontrato la testa di suo figlio e, così, aveva smesso di vagare. Lei ha salito la scalinata correndo, ansimando, l’aria che mancava. Sulla porta di casa, il corpo del figlio coperto da un lenzuolo. Ha alzato il lenzuolo. Ha visto il sangue. La madre vi ha immerso le dita e ha dipinto il volto con il sangue di suo figlio.

 

La scena è successa il 10 di giugno, a Rio de Janeiro. Insieme a lei, la pietà nera del Brasile ha attraversato lo svuotamento delle parole. Il volto dove si mescolano lacrime e sangue, documentati dal fotografo Pablo Jacob, dell’agenzia O Globo, è stato pubblicato dai giornali. Per un effimero istante, che già inizia a passare, la morte di

Sheila Da Silva - foto di Paolo Jacob (Ag. O Globo)

un giovane nero e povero in una favela carioca è diventata notizia. Sua madre ha fatto un gesto. Non fosse vita, sarebbe arte.

 

Sheila ha sentito gli spari ed è andata avanti. Lei doveva andare avanti sperando che le pallottole fossero per altri figli, altre madri. Ed è tornata indietro con la sua busta con dentro patate, carote e pane. Lei ancora non sapeva che la pallottola questa volta era per lei. Ancora non c’era sangue, ma l’immagine era già terribile, perché quotidiana, invisibile. La donna che va avanti nonostante gli spari e ritorna con le patate, la carota e il pane, furiosamente umana, cercando un po’ di spazio  di routine, un frammento di normalità, in mezzo ad una guerra che lei non potrà mai vincere. E le guerre che non si possono vincere non sono guerre, bensì massacri. E allora lei corre, senza più fiato. E questa volta le patate, la carota e il pane non possono più salvarla.

La pietà dipinge il volto

con il sangue del figlio

per farsi umana.

La pietà dipinge il volto con il sangue del figlio per farsi umana dentro l’orrore. E allora ci raggiunge. Ma è una guerriera sconfitta da sempre, perché ci raggiunge appena per un instante, e subito sarà dimenticata. E dopo il suo, altri figli sono già stati perforati dalle pallottole. Il suo sangue ha corso cunicoli, vicoli e scalinate, mescolandosi agli scarichi delle fogne che sono i fiumi e torrenti contaminati che scorrono nelle periferie.

La Pietà della favela non tiene in grembo il corpo morto del figlio come nell’immagine rinascimentale. Lei va oltre il gesto, perché qui non ci saranno rinascite. Fa del sangue del figlio la sua propria pelle, converte il sangue di suo figlio nel suo, e lo porta con se. Ritualizza. In questo gesto, lei denuncia due tragedie: il genocidio della gioventù nera che, questa volta, ha preso suo figlio ed il fatto che “genocidio” è una parola che, in Brasile, ormai non dice più nulla. Se per il dolore della madre che perde un figlio non esiste un nome, una parola che lo descriva, c'è un altro orrore, e questo riguarda il Brasile. La tragedia brasiliana è che le parole ci sono, ma non dicono più.

 

Perché, se non c'è l'ascolto, non c'è il dire. Le parole diventano come lettere inviate che non arrivano mai al destinatario. Lettere smarrite, perdute. Se l’altro è un indirizzo sempre sbagliato, una casa ormai disabitata, non c'è chi ascolta, non c'è risposta. In un paese in cui le parole smettono di dire, rimane il sangue. Le parole che le madri potrebbero dire, le parole che davvero dicono, non perforano nessun timpano, non feriscono nessun cuore non smuovono coscienza alcuna. Davanti al corpo morto del figlio, la Pietà nera ha bisogno di vestire il sangue, di incarnarsi, perché le parole si sono disincarnate. In Brasile, le parole sono fantasmi.

Quattro giorni dopo che Sheila da Silva ha dipinto il volto con il sangue del figlio, il 14 giugno, nel municipio di Caarapó, nello stato del Mato Grosso do Sul, circa 70 fazendeiros (ndt. grandi proprietari terrieri, latifondisti) sono saliti sulle loro camionette e hanno invaso l’area dove un gruppo di indigeni Guarani Kaiowá aveva ripreso Toro Paso, la loro terra tradizionale. Hanno assassinato l’indigeno Clodiodi Aquileu Rodrigues de Souza Guarani Kaiowá, 26 anni, operatore sanitario, e hanno ferito a colpi d'arma da fuoco altri cinque indigeni, tra loro un bambino di 12 anni, colpito da uno sparo alla pancia. Non è stato un “conflitto”, come parte dei media insiste a dire. È stato un massacro.

 

Le parole diventano 

lettere smarrite

che non arrivano mai

al destinatario.

Il corpo dell'indigeno Clodiodi Guarani Kaiowá  assassinato a Caarapó dai fazendeiros

Circa una settantina di persone sono partite dalle loro case con un idea: scaccerò questi indigeni anche a costo di doverli uccidere. E hanno ucciso. Almeno fin dal giorno prima, nella regione già si sapeva che l’attacco era stato pianificato, ma le autorità non hanno preso alcuna iniziativa per impedirlo.

 

Ancora un episodio di un altro genocidio, quello degli indios. Più di 500 anni dopo l’invasione europea, durante la quale a milioni iniziarono ad essere sterminati, questo è ancora in corso. Ma le parole ormai non dicono più nulla. Ed il sangue ha sporcato Toro Paso, ancora una volta.

 

I Guarani Kaiowá sanno che le parole dei non indigeni, in Brasile, non dicono nulla. Fin dal 1980 è stato denunciato che i giovani indigeni si impiccano agli alberi perché le parole dei bianchi non dicono nulla. Senza poter vivere, si uccidono. Questo ha richiamato qualche attenzione, all’inizio del “fenomeno”, poi è diventato routine, non faceva più notizia. Anche gli alti indici di denutrizione, che hanno causato la morte di bambini, sono ben noti. Ma nemmeno la coscienza che gli indigeni soffrano la fame ha accelerato il processo di demarcazione delle loro terre.

Nel 2012, un gruppo di 170 uomini, donne e bambini Guarani Kaiowá scrisse una lettera. Loro stavano per essere ancora una volta strappati dalla loro terra per una decisione della (in)giustizia. Scrissero, nella lingua dei bianchi, che avrebbero resistito e che non sarebbero usciti nemmeno morti dalla loro terra ancestrale: “Chiediamo al governo e alla Giustizia Federale di non decretare l’ordine di espropriazione/espulsione, ma di decretare la nostra morte collettiva e seppellirci tutti qui. Chiediamo, una volta per tutte, che sia decretata la nostra estinzione/decimazione totale, oltre all'invio di diversi trattori per scavare una grande fossa in cui gettare e seppellire i nostri corpi”.

I Guarani Kaiowá sanno

che la parola dei bianchi non agisce.

La lettera li ha strappati dal silenzio mortificante al quale erano stati condannati. Alla fine, l’interpretazione di ciò che gli indigeni dicevano era chiara: ammettete il genocidio e decretino la nostra estinzione. Seppelliteci tutti in un colpo solo e piantate soia, canna da zucchero e buoi sulle terre rubate e concimate con i nostri corpi. Abbiate il coraggio di ammettere lo sterminio invece di usare le vostre leggi per ucciderci lentamente. Pronunciate il nome di ciò che di fato siete: assassini. Era questo e, detto nella lingua dei bianchi da parte di quelli che appartengono ad un'altra lingua, causò uno schock. Ma lo schock è passato. E i Guarani Kaiowá hanno continuato ad essere sterminati. Anche con le pallottole.

 

La parola, per i Guarani, ha un significato profondo. "Ñeé " è parola ed è anima, è parola-anima. Vale la pena ricordare un pezzo del bel testo dell’antropologa Graciela Chamorro:

 

“La parola è l’unità più densa che spiega come è concepita la vita dai popoli chiamati Guarani e come loro immaginano il trascendente. Le esperienze della vita sono esperienze di parola. Dio è parola. (…) La nascita, come il momento in cui la parola si siede o si procura un posto nel corpo del bambino. La parola circola nello scheletro umano. Ci tiene in piedi, ci umanizza. (…)

Per i Guarani, è la

parola-anima che umanizza; senza di lei la persona diventa un non essere.

Nella cerimonia di nomina, lo sciamano rivelerà il nome del bambino, segnando con questo la ricezione ufficiale della nuova parola nella comunità. (…) Le crisi della vita – malattie, tristezze, inimicizie ecc. – sono spiegate come un allontanamento della persona dalla sua parola divinatoria. Per questo, i preganti e le preganti si sforzano di “riportare indietro”, di “far tornare a sedere”, la parola nella persona, restituendogli la salute. (…) Quando la parola non ha più un luogo, un posto ove sedere, la persona muore e diventa un "divenire", un non essere, una parola-che-non-è-più. (…) Ñe'ẽ ayvu possono essere tradotte tanto come ‘parola’ quanto come ‘anima’, con lo stesso significato di ‘la mia parola sono io’ oppure ‘la mia anima sono io’. (…) Così, anima e parola possono aggettivarsi mutualmente, e si puo' parlare di parola-anima oppure anima-parola, essendo l’anima non una parte, ma la vita come un tutto”.

 

Come ha spiegato l’antropologo Spency Pimentel quando la lettera fu divulgata, “la parola è il nucleo dell’esistenza, ha il potere di agire nel mondo, fa sì che le cose accadano, determina il futuro”. Per i Guarani Kaiowá, la parola è “parola che agisce”. Gli indigeni non avevano ancora compreso la profondità della corrosione di ciò che si chiama Brasile, questa terra eretta sopra i propri cadaveri da colonizzatori che a loro volta erano stati colonizzati, espropriati che diventarono espropriatori, rifugiati che espellono. Questa terra in permanente rovina perché costruita sulle ossa, viscere e sangue, unghie e denti, rovine umane. Nell’invocare la parola dei non indigeni, i Guarani Kaiowá non avevano ancora capito che il Brasile marcisce perché la parola dei bianchi ormai non agisce più.

La parola dei bianchi

ha perso l’anima.

Il genocidio dei Guarani Kaiowá, così come quello di altri popoli indigeni, nell’essere nominato, persino urlato, non produce azione alcuna, non produce alcun movimento. Che si impicchino, che muoiano di fame, che vengono colpiti da un colpo di pistola, niente di tutto ciò smuove qualcosa. Le parole sono diventate silenziose tanto quanto i corpi morti. Le parole, come i corpi, non hanno più vita. E, così, non possono dire nulla. Non sono nemmeno fantasmi, perché per essere fantasmi è necessario avere un’anima, anche se in pena. La parola-anima dei Guarani mette in luce, per contro, che la parola dei loro assassini non dice più. Nemmeno esiste.

 

Se c’è un genocidio negro, se c’è un genocidio indigeno, e conosciamo le parole, e le pronunciamo, e non succede niente, si è creato qualcosa di nuovo nel Brasile attuale. Qualcosa che non è censura, perché va oltre la censura. Non è che non si possano dire le parole, come al tempo della dittatura, è che le parole che si dicono ormai non dicono più. Il silenziamento di oggi, pieno di rumore e furia sulle strade di asfalto, ed anche di quelle di bytes, è affollato di parole che non dicono nulla. Questo è il golpe. E la carne colpita è negra, è indigena. Questo è il golpe fondatore del Brasile che si ripete. E si ripete. E si ripete. Ma sempre con un po’ più di orrore, perché il mondo cambia, il pensiero evolve, ma il golpe continua a ripetersi. Fino al punto di arrivare oggi a zittire le stesse parole pronunciate.

Il golpe fondatore del Brasile si ripete, e la carne colpita è negra, è indigena

Nel film Trago Comigo (ndt. Porto con me), de Tata Amaral, che è appena stato presentato nelle sale in Brasile, ciò che colpisce di più sono le targhette nere. L’opera intermezza una parte narrativa di finzione con testimonianze di persone reali. Un direttore di teatro, impersonato da Carlos Alberto Riccelli, è un guerrigliero ai tempi della dittatura, incarcerato, torturato e esiliato, che ha dimenticato un capitolo fondamentale della sua storia. Per la reinaugurazione di un teatro che era stato abbandonato, un teatro pieno di polvere, ragnatele e silenzi, come quell’angolo della sua memoria, egli mette in scena uno spettacolo che rappresenta la propria storia, il capitolo dimenticato della sua storia. Per ricordarsi di se stesso, mette in scena la realtà come finzione. Ma, per ricordare a noi, noi che assistiamo, che è di realtà che si tratta, torturati dal regime civile-militare raccontano la loro prigionia nelle celle della repressione.

 

In Trago Comigo la targhetta nera

che tappa le bocche delle vittime punta il dito sull’osceno:

i torturatori continueranno

a rimanere impuniti

Quando pronunciano i nomi dei torturatori però, la voce è interdetta e una targhetta nera tappa la bocca di colui che sta parlando. I nomi non possono essere pronunciati ancor oggi, nonostante si viva formalmente in una democrazia, perché i torturatori e gli assassini del regime non sono stati né giudicati né tantomeno condannati.

 

Nello scegliere di usare la targhetta nera, la regista protegge se stessa da eventuali processi giudiziari. Ma allo stesso tempo denuncia il golpe che è continuato – e continua- ad essere perpetrato.

La targhetta indica ciò che è osceno - o pornografico: che i torturatori e gli assassini non possono essere chiamati per nome perché non saranno giudicati. E così non risponderanno per i loro crimini. Senza poter nominare quelli che li hanno violentati, coloro che sono sopravvissuti continuano ad essere violentati. E i morti, quelli che sono stati assassinati, senza il nome del killer continueranno “insepolti”. Se non chiude i conti con la storia, un paese condanna il presente, perché il passato continua a ripetersi nel presente. E non c'è  niente di peggio di un passato che non passa.

 

Il punto è che, fuori dal cinema, i nomi dei 377 agenti di stato che hanno contribuito direttamente o indirettamente al rapimento, tortura, omicidio e occultamento dei cadaveri durante il regime dittatoriale  (1964-1985) sono stati pronunciati. Sono documentati e disponibili pubblicamente nella relazione della “Commissione Nazionale della Verità”, che ha appurato i crimini della dittatura. Ma nonostante questo non sono stati processati.

 

L'unico torturatore riconosciuto come tale dalla giustizia é stato il colonnello Carlos Alberto Brilhante Ustra (1932-2015). Nel mese di aprile 2015, tuttavia, una delle azioni penali contro di lui è stata sospesa da un provvedimento della Ministra Rosa Weber, del Supremo Tribunale Federale (STF), basata sul perdono concesso dalla Legge di Amnistia. Il colonnello morì nel mese di ottobre senza essere punito. C'è un grande clamore intorno ad una revisione della legge di amnistia, ma nel 2010 il Supremo Tribunale Federale ha deciso di non modificarla. L'Ordine degli Avvocati del Brasile (OAB) ha presentato vari ricorsi, che dopo anni non sono ancora stati analizzati.

È più complicato della stessa censura, perché oggi le parole vengono pronunciate, ma non producono trasformazione.

Così, è ancora più complicato che con la censura, è ancora più complicato di quanto non si può dire. Perché di nuovo, le parole esistono. Le parole sono pronunciate. Ma non dicono nulla, perché non producono abbastanza movimento per trasformare la realtà. In questo caso, il movimento sufficiente per promuovere la giustizia, in modo che le parole possano dire che questo paese non tollera – né tollererà - torturatori e assassini, che questo paese non tollera - né tollererà  - dittatori e dittature.

Solo in un paese in cui le parole hanno fallito la scelta di mettere una targhetta nera sulle parole pronunciate è una denuncia più forte che il dirle - o sdoganarle. La targhetta evidenzia  meno quello che non si può dire, e di più quello che é inutile dire. La censura è la repressione applicata alle parole che agiscono, e nell’agire, destabilizzano l'oppressione, diventano pericolose per gli oppressori. Qui, non agiscono più, il che fa rituffare il paese, che era ritornato alla democrazia,  in un terrore d’altro ordine.

 

Nella votazione della Camera dei Deputati che ha deciso l'apertura del processo di impeachment della presidente  Dilma Rousseff, il 17 aprile scorso, il deputato Jair Bolsonaro (PSC) ha mostrato ciò che accade in un paese dove le parole hanno perso la loro anima. Votando per l'impeachment, ha reso omaggio a uno dei più grandi torturatori della dittatura civile-militare: "In memoria del colonnello Carlos Alberto Brilhante Ustra, il terrore di Dilma Rousseff, per l'esercito di Caxias, per le Forze Armate, per il Brasile prima di tutto e Dio prima di tutto, il mio voto è sì."

[guarda il video con l'intervento di Jair Bolsonaro]

Sotto il comando di Ustra, almeno 50 persone sono state assassinate e centinaia sono state torturate. Una di loro era Amelia Teles, nota come Amelinha. Dopo essere stata selvaggiamente torturata, venne messa a sedere sulla "sedia del drago" strumento di tortura in cui la vittima è legata con cinghie di cuoio e fili elettrici  in varie parti del corpo, compresi i genitali. Amelinha era nuda, coperta di urina e vomito. Ustra chiamó i suoi due figli, di 4 e 5 anni, per vedere in che situazione si trovava la loro mamma. La bambina chiese: "Mamma, perché sei blu?". Amelinha era blu a causa delle scariche elettriche. I bambini furono portati via e la madre continuò ad essere torturata.

 

Questo era l'uomo cui Bolsonaro ha reso omaggio, e questo è solo un caso tra centinaia. Jair Bolsonaro è stato acclamato da molti per aver omaggiato un serial killer, per non parlare della perversione esplicita della dichiarazione: "il terrore di Dilma Rousseff". Come si sa, la presidente, oggi sospesa, è una delle tante torturate dalla dittatura.

Quando il deputato Jean Wyllys (PSOL) ha votato contro l'impeachment, Bolsonaro lo ha insultato, definendolo un "viado", un "frocio" e lo ha afferrato per un braccio. Jean Wyllys gli ha sputato addosso. Lo sputo ha generato molta polemica. Per una parte della società brasiliana,  lo sputo è diventato un atto più grave dell'aver onorato un torturatore e assassino che è morto impunito. Ma cosa puo' aver denunciato lo sputo? L'impossibilità della parola, del suo svuotamento. Oltre a dibattere se lo sputo è accettabile o no, è necessario decifrare il gesto.

 

Lo sputo di Jean Wyllys

non ha colpito solo

Jair Bolsonaro,

ha colpito molto di piú.
 

Quando qualcuno democraticamente eletto può rendere omaggio a un serial killer della dittatura e ricordare sadicamente che era "il terrore" della presidente rimossa e poi commettere reato di omofobia, e nulla si muove al di là di altre parole, è perché le parole si sono svuotate di potere. Lo sputo non ha colpito solo Bolsonaro, ha colpito molto di più. Avendo a sua disposizione solo parole morte, parole che non dicono, forse non gli é restato che sputare. E così, senza le parole dopo il 17 aprile, manifestanti in tutto il Brasile hanno sputato e vomitato sulle foto dei parlamentari.

Anche la disputa  riguardo

il "golpe" sottolinea

lo svuotamento delle parole.

Ho scritto più di una volta che io considero il governo di Dilma Rousseff indifendibile negli aspetti fondamentali, e che quello del suo vice-cospiratore Michel Temer è la sua continuazione peggiorata. L’allontanamento senza base legale di una presidente democraticamente eletta, tuttavia, non rispetta il voto della maggioranza e costerà molto caro al paese. Cosí io sono contro l'impeachment.

Ma la disputa attorno alla  parola "golpe" – se si tratta o meno di “golpe” il processo di impeachment - mi sembra puntare anche in questo caso allo svuotamento delle parole. È imperativo domandare, per evitare il rischio di semplificazioni che possono servire al pragmatismo di adesso, ma esigere un prezzo elevato in seguito: dove sta il “golpe”? E chi sono i colpiti in questo paese?

 

Basta seguire il sangue. Basta seguire la scia di umiliazioni di quelli che vedono le loro case violate dalle forze dell'ordine in periferia, di quelli che hanno visto le loro case distrutte dalle opere  prima della Coppa del Mondo e poi delle Olimpiadi, di quelli cui le grandi opere in Amazzonia hanno rubato le vite, di quelli che affollano le carceri a causa del colore della loro pelle, di quelli che hanno meno di tutti a causa della loro razza, di quelli a cui lo stato fa solo finta di insegnare in scuole che cadono a pezzi, negandogli tutte le possibilità, di quelli che sono espulsi dalle loro terre ancestrali e spinti nelle favelas delle grandi città, di quelli che le cui coperte per ripararsi dal freddo vengono sequestrate per non "rifavelizzare" lo spazio pubblico. Basta seguire quelli che muoiono e quelli che sono morti per sapere dove é golpe e chi sono i  colpiti. Come ci ha ricordato Sheila da Silva, la Pietà  nera del Brasile, il sangue dice ciò che le parole non sono più in grado di dire.


Questa crisi non è solo economica e politica. È una crisi di identità - ed è una crisi della parola. Sono le parole che ci strappano dalla barbarie. Se le parole non tornano ad incarnare, se le parole non torneranno a “dire” in Brasile, il passato non passerà. E non ci resterà che dipingerci il viso con il sangue.

Eliane Brum

Eliane Brum

 

è nata a Ijuí, nel sud del Brasile, nel 1966. Scrittrice, reporter e documentarista, vive ad Altamira, città amazzonica nella quale si è stabilmente trasferita nel 2017. Ha vinto moltissimi premi nazionali e internazionali di giornalismo ed è la reporter brasiliana più premiata della storia.

Nel 2021 è stata tra le vincitrici dell'antico e prestigioso Premio Cabot di giornalismo della Columbia University. In Brasile, nel 2019, con il suo libro “Brasil, Construtor de Ruínas: um olhar sobre o país, de Lula a Bolsonaro”, ha vinto il Premio Vladimir Herzog de Anistia e Direitos Humanos, che riconosce il lavoro di giornalisti, reporter fotografici e disegnatori che attraverso il loro lavoro quotidiano difendono la democrazia, la cittadinanza ed i diritti umani.

Collabora con El País e The Guardian. Ha pubblicato un romanzo, "Uma Duas" (2011), ed altri sette libri. Ad ottobre del 2021 ha pubblicato la sua ultima opera "Banzeiro òkòtó: Uma viagem à Amazônia Centro do Mundo". I suoi libri sono stati tradotti in diversi paesi. In Italia ha pubblicato “Le vite che nessuno vede” (Sellerio 2020) ed un suo testo in "Dignità! Nove scrittori per Medici senza Frontiere" (Feltrinelli 2011).

 

Site: elianebrum.com | Twitter, Instagram e Facebook: @brumelianebrum

 

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