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10.11.15

Pressato perché rinunciasse al suo show con Gilberto Gil in Israele, Veloso ha visitato, con l’amico, aree della Cisgiordania, rimanendo colpito dalla situazione di segregazione e oppressione subita dai palestinesi. Un tratto della lettera di Marcelo Yuka ("La pace che non voglio") sintetizza il sentimento che è gli è rimasto del viaggio.

Caetano Veloso:

visitare Israele per non tornare mai più in Israele

di Caetano Veloso, pubblicato su Folha de S.Paulo  08.11.15

traduzione di Clelia Pinto per il Resto del Carlinho Utopia

Arrivare a Tel Aviv arrivando dall’Europa è come tornare in Brasile. La città ha l’aspetto di  una delle nostre città del nord-est, e il suo popolo, quell’aria disincantata dei carioca. Sin dalla prima volta che sono stato in Israele, il contrasto della capitale con le città europee, espresso dall’architettura moderna indefinita e dalla sensualità degli abitanti, mi ha conquistato. Ho sentito immediatamente familiare questa città di spiagge assolata nell’estate mediterranea.

 

Questa identificazione mi lasciava totalmente vulnerabile alla forza storica che a ogni passo ero invitato a affrontare. La coscienza di trovarci in Terra Santa, i segni della fondazione del paese dopo la seconda guerra mondiale, le esperienze socialiste dei kibutz, la rinascita dell’ebraico parlato, la tensione della minaccia permanente degli uomini-bomba.

 

Sono tornato in Israele poche volte, con un intervallo molto più lungo tra la penultima e questa di ora, rispetto alle precedenti. La prima è stata nel 1980.

Caetano e Gil durante la loro visita in Cisgiordania

Quest’ultima, è stata diversa sin dalla partenza dalla Francia: nessuna perquisizione minuziosa né separazione in sale diverse per i passeggeri che vi erano diretti. E, all’aeroporto Ben Gurion, neanche lontanamente l’accoglienza nervosa delle prime visite. Tel Aviv ci ha ricevuto senza facce diffidenti e, già nelle strade, senza gli allora infallibili ( e nonostante tutto affascinanti) soldati, di ambo i sessi, a ogni angolo. Quest’assenza di segnali di difesa arcigna faceva assomigliare la città ancor più a una Fortaleza abitata da carioca. La sensazione di stare a casa è stata più forte e commovente che mai.

Era difficile riconoscere che questa pace rifletteva il maggior poter acquisito dallo stato di Israele, la sua certezza che la cupola di protezione costruita in sua difesa è stabile. Sarà, come dice Marcelo Yuka, la pace che non voglio?

 

Questa domanda non sorgeva facilmente nelle mia testa la notte del mio arrivo. Il giorno dopo, però, non mi abbandonava. Mi svegliai presto per non arrivare in ritardo a un incontro con un gruppo di israeliani critici rispetto alla politica ufficiale, il Breaking the Silence, che mi era stato indicato da Jorge Drexler in occasione di uno show di Gil a Madrid. Aveva saputo che ero interessato a capire cosa succedeva in Cisgiordania e, figlio di padre ebreo, non solo mi diede indicazioni, ma promise anche di mettermi in contatto con membri del movimento.

 

Da questa conversazione a Madrid è sorto il piano di una visita guidata in zone della Cisgiordania dove si potesse sentire il peso dell’occupazione israeliana. L’ho detto a Gilberto e lui ha detto di voler andare anche lui. Siamo andati tutti, noi due e le due equipe di produzione. Nello spazioso pulmino, guidato da un palestinese, c'erano con noi il giornalista argentino Quique Kierszenbaum e Yehuda Shaul, la guida.

 

Yehuda parlava con molta chiarezza, un inglese fluente da israeliano figlio di genitori anglofoni. Disse di essere cresciuto in una famiglia conservatrice. È stato soldato dell’esercito israeliano, un veterano dell’occupazione dei territori palestinesi. Dopo aver vissuto in prima persona molte situazioni di oppressione, segregazione e mostruosità quotidiane, non è più riuscito più a continuare a vivere senza denunciarle e senza opporvisi pubblicamente. Con alcuni colleghi diede inizio a un movimento di protesta permanente. Ci fece notare la kippah che usa, dicendosi ebreo religioso e, mentre il pulmino affrontava deserti, narrò atrocità e ci spiegò la situazione geografica e storica di violenza del suo paese contro le popolazioni della sponda occidentale del Giordano.

 

Rispondendo alla domanda di uno di noi su come vedesse la reazione anti-israeliana di altri gruppi di musulmani, al di là della resistenza palestinese, Yehuda disse di continuare a essere disposto a uccidere e morire per la sua patria, se minacciata da fanatici che non ne ammettono l’esistenza, ma che non accetta l’occupazione dei territori palestinesi perché “non è koscher”. Paragonò l’occupazione a un cancro che ucciderà lo stato di Israele se non estirpato in tempo.

 

Alcuni sostenitori del BDS, movimento internazionale di boicottaggio d’Israele, ci avevano cercati, nel tentativo di dissuaderci dall’andare a Tel Aviv. Per quel che ho sentito dalla bocca di Yehuda - e di Nasser, il palestinese di Susiya che da lui ci è stato presentato - tutti le denunce dei partecipanti al BDS sono fondate. Quel che i più radicali del movimento dicono sul Breaking the Silence è che questo, sebbene critico del governo israeliano, resta sionista. Quel che Yehouda dice di quelli del BDS, sebbene protestino contro quel che lui stesso odia, ha come sfondo la l'eradicazione dello stato di Israele. 

 

L’unico comunicato che Gil ed io abbiamo ricevuto che suggerisce una cosa del genere è quello del Sindacato dei Metallurgici di São José dos Campos. Ecco un esempio del tono del documento: “La nostra lotta è per la giustizia, la libertà e l’uguaglianza. Il nostro sindacato si unisce al movimento BDS, importante strumento per la fine dello stato di Israele.” Izhar Patkin, un artista israeliano, mi ha detto, a Tel Aviv, che trova positiva l’esistenza di ognuno di questi movimenti: fanno il clamore che la questione merita, gridano al mondo quel che già sentiva nei discorsi di Yeshayahu Leibowitz molti anni fa.

 

INTERVISTA COLLETTIVA

Prima di lasciare il Brasile, mi cercò un cittadino israeliano di origine brasiliana, Davi Windholz. Aveva letto l’annuncio del nostro viaggio a Tel Aviv su facebook e ci ha cercati via email. Dirige una scuola per bambini israeliani e palestinesi, si definisce di sinistra rispetto all’establishment politico e voleva fissare un nostro incontro con studenti e dissidenti. Già stavamo in Europa - a dire il vero alla vigilia della partenza per Israele- abbiamo ricevuto un email del promotore locale che ci proponeva un’intervista collettiva alla stampa presso la Fondazione Shimon Peres. Io, che già ero interessato alle proposte di Drexler e Windholz, non ero incline ad accettare la sua proposta. Consultai Windholz via mail. Mi rispose che Peres è “mainstream”. E concluse: “certamente tenteranno di usarvi a favore di Israele , ma voi li saprete dribblare”.

 

Nel frattempo Gil, che, quando era ministro della cultura, aveva fissato un incontro con Peres che poi non si era realizzato, ha deciso di accettare l’intervista collettiva nella sede della fondazione dell’ex premier, ex ministro della Difesa e premio Nobel. Peres era stato vicino a Rabin nel più avanzato tentativo di negoziazione con i palestinesi, interrotto dall’omicidio di Rabin per mano di un giovane fanatico israeliano.

 

Ci accordammo, quindi, affinché alla riunione con Windholz seguisse quella collettiva con Peres. Ma la visita in Cisgiordania ha preceduto tutto questo. Nell’intervista collettiva, l’unica domanda pertinente ci è stata fatta dal giornalista brasiliano Rodrigo Alverez, corrispondente locale della rete tv Globo. A lui ho potuto rispondere di essere stato a Susiya, portato da un ex-soldato israeliano e che questo mi aveva sconcertato. Il fatto di aver menzionato Susiya (che stava nei titoli di giornale di tutti il mondo per le aggressioni dell’esercito israeliano, il che ha generato commenti poco amichevoli a Israele da parte di un membro del Dipartimento di Stato americano) provocò un silenzio imbarazzato in sala.

 

Il fatto è che mi sono sentito triste in quei momenti alla Fondazione Shimon Peres. Uscimmo di lì e andammo alla reception dell’hotel dove eravamo ospiti e là incontrammo Davi Windholz con il suo gruppo di critici della politica israeliana. Lì c’era un gruppo di donne arabe e israeliane che digiunavano da cinquanta giorni per protesta contro gli attacchi a Gaza, avvenuti nel luglio dell'anno prima; il musicista David Broza; e una platea di persone  (soprattutto giovani) che applaudirono forte al solo sentir dire la parola Susiya - il che contrastava con il silenzio imbarazzato dei presenti alla collettiva in Casa Shimon Peres. E c’è stata un’ovazione alle parole “fermate l’occupazione, fermate la segregazione, fermate l’oppressione”, con cui ho concluso il mio racconto della visita in Cisgiordania.

 

LETTERE

Dalle lettere che ci hanno inviato Roger Waters e Desmond Tutu -e le visite dei giovani brasiliani legati anche loro a BDS- ho iniziato a cercare sempre più cose in merito alla questione israelo-palestinese.

 

Stavo ancora facendo presentazioni dello show Abraçaço e avevo bisogno di usare il tempo rimanente in prove con Gil che permettessero la creazione di uno spettacolo minimamente professionale. Ma trovavo il tempo di leggere e vedere dei video. Con la lettera di Windholz, raddoppiai le ricerche. Al ritorno in Brasile ho ricevuto e-mail di aggiornamento del Breaking the Silence. In uno dei messaggi era allegato un video in cui Nasser, il palestinese con cui avevamo parlato a Susiya, era preso a bastonate con pezzi di legno da giovani coloni di un insediamento israeliano. È un’immagine brutale.  Soldati israeliani assistono alla scena impassibili. Ora che una terza intifada si annuncia- e che Netanyahu si vede isolato non solo dall’opposizione ma anche da correligionari che lo accusano di non saper proteggere Israele- constato, da lontano, che la pace che mi sembrava di vedere a Tel Aviv -e che cominciavo a pensare fosse la pace che non voglio- era, come nel frattempo sapevo da sempre, fragile, superficiale e illusoria.

 

RAGAZZI

Prima del viaggio, avevo detto a Pedro Charbel e Iara Haazs, i giovani di BDS con cui avevamo parlato, che a me era sempre così piaciuto Israele da sentirmi un cittadino israeliano che si oppone alle politiche di stato del suo paese. Iara è, lei stessa, israeliana, (ebrea brasiliana cresciuta in Israele) ma neanche lei si sentiva a suo agio con questa mia definizione. Sono ragazzi militanti, il che può generare alte forme di intolleranza. Un loro amico, Gabriel, era a Suisya nei giorni in cui eravamo lì.  Schivo e con sguardo inquisitore, esibiva una silenziosa impazienza verso la sottigliezza della nostra situazione di visitatori: ci volevano nella lotta chiara di quelli che boicottano Israele e deploravano qualsiasi sfumatura, qualsiasi suggerimento di complessità.

 

Io voglio la pace che si mostra da sempre impossibile. Ma ora la voglio sentendomi più vicino ai palestinesi di quanto mai abbia potuto immaginare e molto più lontano da Israele di quel che il mio cuore potesse supporre poco più di un anno fa. E voglio che Gabriel, Iara e Pedro lo sappiano.

 

Lasciando il Brasile, scrissi una e-mail a Hany Abu-Assad, il grande cineasta palestinese che ci ha dato “Paradise now”, avvisandolo del nostro viaggio e raccontando delle pressioni ricevute dal BDS. Rispose che sarebbe stato contento di vederci: il tempo trascorso a Rio gli sembrava tra i migliori della sua vita. Ma che preferiva che noi accettassimo le richieste del BDS: “Sono miei amici”, disse. Ma aggiunse che, se fossimo andati, sarebbe ugualmente venuto al concerto.

 

Quando alla fine andammo, c'inviò un e-mail dicendo che non poteva venire: stava ultimando un nuovo film in Europa. È un uomo che a Bahia, alla mia domanda sul suo essere religioso,  rispose: “ non lo sono mai stato, non ho fede, ma oggi mi considero religioso musulmano per ragioni politiche”. Prima di salire sul palco pensai di dedicargli il concerto. Pensai anche di ritirare l’omaggio alla memoria di Franklin Dario, l’ebreo del Pernambuco che compose “Ana vai embora”. Ma sul palco, di fianco a Gil, davanti a un’immensa platea decisi di lasciare che il concerto parlasse da sé. Nel pulmino per Susiya avevo chiesto a Yehuda cosa pensava dell’idea ch’io urlassi "Break the silence” durante il concerto. Lui rimase in silenzio per qualche minuto  e infine rispose “Non so. Può essere interessante; mi piacerebbe sapere come reagirebbe il pubblico”. Quando fu l'ora, facendo un grande sforzo interiore, decisi per un totale silenzio politico.

 

SEGREGAZIONE

Il ricordo della canzone di Rappa venne popolata da scene di segregazione informale  (e non poche volte formalizzata ad hoc) che si esercita in Brasile. Chi stava vedendo quell’accampamento palestinese con bandiere issate su abitazioni provvisorie era un gruppo di brasiliani capaci di trovare la scena simile a un accampamento del Movimento Sem Terra. Tre figlie di Nasser, due bambine e un’adolescente (il che comportava che indossasse il velo) giocavano attorno. Avevo bisogno di andare in bagno e chiesi a Paulinha Lavigne che fare. Lei era già più inserita nel gruppo delle ragazze di quel che potessi pensare. Senza una lingua con cui comunicare con i palestinesi, le donne del nostro gruppo già erano riuscite a dialogare con loro, che erano belle e sorridenti. Mi indicarono un bagno sperduto. Anche Gabriel, il ragazzo del Bds, aiutò nell'indicarmi la direzione.

 

Nasser era uscito in macchina per risolvere qualcosa non lontano e tornando si unì a noi in una tenda. Ci raccontò scenari di distruzione delle abitazioni da parte dell’esercito israeliano e spiegò i cavilli legali usati dal potere giudiziario per continuare a perpetrare la violenza dell’occupazione.  Mi venivano in mente le favela brasiliane occupate. Non volevo fare riduzionismo politico e usare uno schema unico per valutare questioni brasiliane alla luce di quelle palestinesi, ma le immagini dei disastri puntuali della Unità di Polizia Pacificatrice a Rio (non solo il caso di Amarildo) mi venivano in mente. Noi, i visitatori, non eravamo estranei alla disumanità di cui eravamo testimoni in Medio Oriente.  Era impossibile non fare un paragone con quello che viviamo in Brasile.

 

FOLLIA

In rete ho visto il discorso di un figlio del generale ebreo, eroe della Guerra dei Sei Giorni, pieno della più violenta opposizione non solo alla politica israeliana ma anche alla stessa esistenza di Israele, fondando la sua argomentazione non su quella guerra ma nella Nakba, la catastrofe che fu, per gli arabi di Palestina, la fondazione dello stato israeliano. Ho visto una donna che sosteneva non fosse ragionevole scambiare pace con terra, si baratta pace con pace, ripeteva, volendo dire no alle tesi di porre fine all’occupazione e agli insediamenti. Ho visto un cartoon che sosteneva la proposta di due stati in un unico territorio ("2 stati, 1 Patria), in cui si suggerisce che tutta l’area che va dal Giordano al Mediterraneo sia equamente divisa tra arabi e israeliani, ogni gruppo col suo governo. Ci sono molti conservatori arabi che dicono questo significherebbe affogare la popolazione israeliana nell’immensa moltitudine araba. Anche così, è questa l'ipotesi che Windholz annuncia che sosterrà nelle conferenze che terrà in Brasile.

 

Ma il maestro che ha parlato di nazismo ebraico, Yeshayahu Leibowitz (1903-94), uno scienziato che era anche religioso, nell'urlare contro il ministro della suprema corte israeliana che aveva reso legale la tortura di individui arabi per farli parlare e così mantenere protetto Israele, mi ha impressionato più di tutti. Leibowitz non fu soltanto un religioso che difendeva la divisione tra religione e stato e anticipò i nemici di Israele nel rilevare aspetti nazisti nella politica del paese, ma anche, pur mantenendosi sionista, si oppose violentemente alla Guerra dei Sei Giorni e ancor di più all’invasione del Libano. Fu anche pioniere nel parallelo tra Sudafrica/Israele.

 

Avrei dedicato il nostro concerto alla sua memoria. Amo Israele fisicamente. Tel Aviv è un luogo mio, di cui sento saudade, quasi come per Bahia.

Ma penso che non ci tornerò mai più.

 

 

Caetano Veloso

#CancelaCaetanoEGil

SULLA NOSTRA PAGINA FACEBBOK AVEVAMO SEGUITO LA VICENDA CAETANO E GIL IN ISRAELE. A SEGUIRE ALCUNI LINK

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08.05.15

CARLOS LATUFF IN APPOGGIO ALLA PETIZIONE CHE CHIEDE A CAETANO VELOSO E GILBERTO GIL DI CANCELLARE IL LORO CONCERTO IN ISRAELE

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30.07.15

LA VERGOGNA DI CAETANO E GIL IN ISRAELE
articolo degli israeliani Ofer Neiman e Yonatan Shapira pubblicato sul quotidiano brasiliano O Globo il 27.07.15

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09.11.15

CARLOS LATUFF:

MEGLIO TARDI CHE MAI, CAETANO...

Postato da Carlos Latuff sulla sua pagina

Facebook. Traduzione di Clelia Pinto

 

Manca di verità la dichiarazione della

Confederazione Israeliana del Brasile

(Conib), quando dice in nota che la

campgna contro l’apartheid israeliana è opera di “gruppi di odio che predicano il boicottaggio cieco a Israele”, che Caetano Veloso ha “ceduto” alla supposta “onda antisemita” e che “si finge cieco di fronte all’incitazione al terrorismo e all’odio contro gli ebrei”. La nota parla anche di “negoziazioni di pace” e “causa di pace” come se fosse quel che il governo israeliano nella figura del primo ministro Benjamin Netanyahu cerca.

 

La CONIB omette il fatto che Netanyahu costruisce ogni giorno di più colonie israeliane in territorio palestinese, e che ha nel suo entourage figure come la segretaria della giustizia Ayelet Shaked, che su Facebook incita apertamente al genocidio palestinese e chiama le madri palestinesi “piccole serpi”.

 

La CONIB ignora anche che nel 2012, durante l’Operazione Pilastro di Difesa, dove bombardieri israeliani fecero vittime tra i civili palestinesi nella Striscia di Gaza, l’allora ministro dell’Interno Eli Yishai disse che le forze di Israele dovevano mandare Gaza indietro al medioevo.

 

Curioso che la CONIB menzioni la “incitazione al terrorismo” in questa nota, ma che abbia anche dimenticato che lo stato di Israele è stato imposto agli arabi attraverso azioni violente di organizzazioni terroriste israeliane come Haganah, Stern Gang e Irgun, quest’ultima anche responsabile di un camion bomba contro l’hotel King David a Gerusalemme nell 1946.

 

La nota della CONIB afferma anche che Caetano Veloso ha voluto vedere “solo un lato della questione”. Se questo lato è quello dei palestinesi, allora Veloso ha fatto molto bene, perché è il lato più debole, è il lato che ha le sue case demolite per la costruzione degli insediamenti israeliani, il lato di chi ha il suo diritto di andare e venire circondato da innumerevoli checkpoint, il lato di chi ha i suoi bambini e giovani fucilati nelle strade o arrestati dalla macchina di repressione israeliana.

 

Israele ha dalla sua parte gli Stati Uniti, che all’Onu impediscono qualsiasi sanzione contro le innumerevoli violazioni dei diritti umani, abbondantemente documentate anche da ONG israeliane. Israele ha forze aeree, navali, terrestri, armi nucleari, milioni di dollari da Washignton. E i palestinesi, cos’hanno? Chi li appoggia in questo conflitto impari?

 

Pertanto, la campagna BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) è più che giusta. Ha funzionato contro l’apartheid sudafricana, funziona contro quella israeliana, tanto che le organizzazioni come il CONIB, che sono cinte di trasmissione della politica israeliana in Brasile , accusano la campagna di boicottaggio di “antisemitismo”, in un tentativo di criminalizzare l’iniziativa.

 

Caetano Veloso e Gilberto Gil non dovevano, in primo luogo, fare quel concerto in Israele. Furono innumerevoli gli appelli, incluso il mio. Ma in ogni modo, se il viaggio in Cisgiordania ha fatto in modo che Caetano Veloso aprisse gli occhi sulle atrocità del regime israeliano, meno male, meglio tardi che mai, e che ancor più artisti si aggiungano al coro di quelli che difendono l’auto-determinazione del popolo palestinese.

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