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13.09.15

Eliane Brum intervista Carlos Moore

Un nero in eterno esilio

Il lungo viaggio di Charles Moore, attivista e intellettuale che denunciò il razzismo a Cuba e ha trascorso la sua vita perseguitato da entrambe le parti della guerra fredda, fino ad arrivare in Brasile e trovare un paese immerso in una crescente tensione razziale

di Eliane Brum*, pubblicato sul El Pais, il 09.09.15

traduzione di Clelia Pinto e Carlinho Utopia

Carlos Moore. Copertina del libro "Pichon. La mia vita e la rivoluzione cubana"

Carlos Moore. Copertina del libro
"Pichon. La mia vita e la rivoluzione cubana"

A 22 anni, Carlos Moore aveva già vissuto più della maggioranza delle persone in un'intera esistenza. Già aveva conosciuto la fame e la violenza nella piccola città cubana dove è nato, già aveva desiderato di non essere nero e tentato di lisciare i capelli, di schiarire la pelle con prodotti rischiosi e di affinare il naso con le mollette, già era emigrato negli Stati Uniti e scoperto la lotta per i diritti civili, già si era innamorato di Patrice Lumumba, il famoso leader congolese e pianificato un attentato contro il consolato belga a New York per vendicare il suo omicidio, già era rimasto affascinato dalla rivoluzione dopo un incontro con Fidel Castro, già era diventato comunista e tornato a Cuba per collaborare con il processo rivoluzionario, già aveva scoperto che il regime cubano era tanto razzista quanto quello che aveva spazzato via, già era stato imprigionato una volta per aver denunciato la persistenza del razzismo nella rivoluzione ed era stato condannato a quattro mesi in un campo di lavoro una seconda volta per lo stesso motivo, dopo aver affrontato lo stesso Fidel Castro in pubblico, già aveva confessato, per non essere ucciso, di essersi sbagliato e che non c'era razzismo a Cuba e si era rifugiato nell'ambasciata della Guinea quando si rese conto che sarebbe stato giustiziato in ogni caso, già era fuggito in Egitto e poi in Francia, senza documenti, ed era stato respinto da un Jean-Paul Sartre convinto che fosse un "agente dell'imperialismo" e accolto da uno degli ideologi del movimento nero, il grande poeta surrealista della Martinica Aimé Césaire, già era diventato addetto alla sicurezza dell'attivista nero Malcolm X, quando si trovava a Parigi e già aveva sofferto in ogni modo possibile per il suo assassinio.

 

Tutto questo è accaduto nei suoi primi 22 anni. Poi, è successo molto di più.  

 

Carlos Moore oggi ha 72 anni. E lancia in Brasile la sua autobiografia: Pichón - la mia vita e la rivoluzione cubana (Nandyala), pubblicata in Brasile grazie ad un finanziamento popolare attraverso crowdfunding, e negli Stati Uniti nel 2008, lo stesso anno in cui Barack Obama diventava il primo nero ad essere eletto presidente della maggiore potenza globale. La prefazione di Maya Angelou (1928-2014), artista e attivista, lei stessa una leggenda, che ha svolto un ruolo cruciale affinché l'allora giovane Moore scoprisse la sua identità e la realtà brutale delle donne nere.

Per capire la traiettoria di Carlos Moore, è necessario comprendere che, in quanto figlio di immigrati giamaicani, egli occupava il gradino più basso della scala razziale della società cubana. Peggio di un nero cubano, c'era solo un nero immigrato dalle altre isole caraibiche. Nel suo libro si parla di genocidi di immigrati neri a Cuba dei quali i più non hanno mai sentito parlare. A 13 anni, sua madre era già stata stuprata e messa incinta dal patrigno. Con un figlio nato dall'incesto, si sposò con un altro immigrato giamaicano. Moore sarebbe nato anni dopo, tra vari altri fratelli. E non ha mai capito perché la madre lo rifiutasse, perché lo picchiasse al punto di ridurlo a letto per giorni, coperto di tagli ed ematomi, arrivando a sviluppare una sorta di reazione convulsiva. Il piccolo Moore scavava buchi in giardino per cercare di fuggire da quella madre. La sua fotografia era l'unica a non essere appesa alle pareti di casa.

 

Un giorno la madre partì, abbandonando tutti. E solo molto più tardi, già adulto, egli avrebbe scoperto la radice della violenza materna tradotta in botte quotidiane sul corpo del figlio. La vita di Carlos Moore puo' anche essere raccontata come un lungo viaggio alla ricerca di una madre e di un'identità.

Anni addietro, dopo aver sofferto un'embolia polmonare e aver flirtato con la morte per tre settimane, Carlos Moore racconta di aver deciso di seguire il consiglio di un suo grande amico, lo scrittore americano Alex Haley (1921 - 1992), autore dell'autobiografia di Malcolm X, e di scrivere le sue memorie. Decise allora di trasferirsi in Brasile dove, fin dal 2000 vive a Salvador, con la sua compagna, la guadalupense Ayeola. Dal primo matrimonio è nato un figlio che oggi vive negli Stati Uniti. In Brasile ha adottato una bambina di una favela, che oggi è diventata adulta e sta facendo un dottorato.

Ha pubblicato sette libri, cinque dei quali tradotti in portoghese e pubblicati in Brasile. Uno di essi "Fela, questa bastarda di una vita", è l'impressionante biografia di Fela Kuti (1938 - 1997), il creatore dell'Afro-beat, al quale fu legato da profonda amicizia. Tra i suoi vari esili, Moore ha fatto due dottorati all'Università di Parigi VII, il primo in Etnologia ed il secondo in Scienze Umanistiche.

 

Carlos Moore scelse il Brasile, dove aveva amici come Abdias do Nascimento (1914-2011), per raccogliersi e scrivere la sua autobiografia con tranquillità, in un paese nel quale era quasi uno sconosciuto. Subito si accorse che il Brasile viveva un punto di flessione nella lotta contro il razzismo, con le politiche delle quote razziali e le altre azioni affermative. Come sempre ha fatto nella sua vita, si è lasciato coinvolgere. Il suo libro "Razzismo & Società", lanciato nel 2012, divenne un punto di riferimento e generò polemiche. Carlos Moore è lontano dall'essere apprezzato all'unanimità, dentro e fuori il movimento nero, il che non sembra preoccuparlo. È diventato uno dei pensatori neri dedicati a questo momento storico molto particolare del Brasile, definito da Moore come "il momento in cui le maschere hanno cominciato a cadere". Fin dall'infanzia, Carlos Moore voleva fuggire, una fuga profonda, con vari significati simultanei. Ha finito per trascorrere la vita fuggendo da persecuzioni che gli arrivavano da ogni lato dello spettro ideologico. Questa fuga interminabile sembra averlo portato fino a se stesso, l'unico punto d'arrivo che importa.

 

L'intervista a seguire è stata fatta nello spazio di sei ore, in due giorni consecutivi della scorsa settimana, durante il soggiorno di Carlos Moore a San Paolo, per il lancio di Pichón. In essa, egli parla di razzismo, traiettoria, identità, donna nera, esilio, così come delle realtà del continente africano e di paesi come Cuba, Stati Uniti e Brasile.

 

Nel suo racconto sfilano personaggi che sono icone della storia mondiale del ventesimo secolo, ma che forse la maggioranza dei non neri non conosce, perché da queste parti (ndt. in Brasile) questa storia è stata cancellata - o mai raccontata.

A prima vista, ciò che richiama l'attenzione in questo nero di tanti mondi è la sua leggerezza, sorprendente in qualcuno che ha percorso una traiettoria così pesante e che ancora porta sul corpo le cicatrici delle violenze che cominciò a subire per mano della sua stessa madre. Moore è accogliente, affettuoso e sorridente, non si sottrae mai ad una domanda difficile, e la sua forza appare quando discorda dal suo interlocutore, dando una risposta demolitrice. Chiaramente, come si vedrà, egli non ha tempo per discorsi da salotto.

1) Il primo esilio di un nero: quello dell'essere

 

Perché ha scelto Pichón come titolo di questo libro? 

 

L’editore americano voleva cambiare titolo, dicendo che non era commerciale. Gli ho detto che non avrei cambiato, perché ho scelto questo titolo affinché le persone s’interrogassero: cos’è pichón? Pichón, nella Cuba della mia infanzia, è il piccolo dell’avvoltoio. Solo più tardi, ormai adulto, ho scoperto il suo significato più neutro, che era il piccolo di qualsiasi uccello. A Cuba era il termine per umiliarci. Quei neri che venivano dalle isole caraibiche erano avvoltoi, perché erano neri e si diceva che rubassero il lavoro dei cubani e mangiassero carogne. E questa è stata la parola che mi ha fatto più male.

Che mi insultassero come “negro di merda” era normale. Tutti i neri erano chiamati “negri di merda” dai bianchi, Ma solo alcuni neri erano insultati come pichón, soltanto gli immigrati provenienti da haiti, Jamaica, Barbados… i neri cubani in genere si chiamano Gonzales, Dias, Hernandez.

Ora, un nero di nome Moore si sa già che non è cubano, anche nel caso in cui sia nato lì, vissuto lì per cento anni. 

 

C’era un odio profondo, razzista, nella società cubana, verso quei figli di immigrati, considerati più primitivi, più barbari, più africani. Più neri. La loro negritudine è esponenzialmente maggiore, in senso negativo. Allora, ho detto: “Se questo è il termine che mi ha più ferito, durante l’infanzia, è quel che voglio usare come titolo del libro”. Non l’avrei cambiato assolutamente.

 

Lei ha avuto una vita di esili. Ma sin da bambino sembra che lei si percepisca come un esiliato, in un senso più profondo. Un esiliato della pelle, della lingua, dei nomi, visto che c’era un rifiuto verso il suo nome, perché rivelava che i suoi erano immigrati giamaicani. È così? 

 

Tutti quelli che nascono da questo lato, che sono neri, nascono in un grande esilio. Un enorme esilio forzato. E, a partire da quello, vengono tutti gli altri esili che ne derivano e che creano nuovi luoghi d’esilio. Ho capito subito che non c’era connessione con il mondo, a parte una connessione fittizia che il mondo bianco mi costringeva ad accettare, nel voler essere come loro. Lì già si creava una rottura fondamentale, che era la rottura con me stesso. Non sapevo chi fossi, perché volevo essere  altro. Perché quell’altro era il buono, il bello, quel che tutti volevano. Quando ero piccolo rifiutai presto mia madre per via di tutta la sua brutalità. Non ho parlato di questo nel libro, ma creai un’altra madre nella mia testa, che era totalmente bianca, bionda, con gli occhi azzurri, come nelle riviste cubane.

Carlos Moore, 72 anni

Carlos Moore, 72 anni

Sua madre era una donna brutale, ma quando lei si è creato una madre immaginaria, ha creato una madre bianca, al posto di una madre nera. Questo viene da un’altra brutalità, no?

 

Si. Io mi ritiravo in fondo al giardino per parlare con questa madre, e lei era affettuosa con me, sempre sorridente e con una voce dolce e facevamo tutto assieme. Questa madre di fantasia mi portava regali e biscotti che mi piacevano molto. Mi mettevo tra due palme, nel buio, di notte e questa madre veniva. Mi chiedeva sempre se fossi contento. E io dicevo di no, che volevo scappare, chiedevo che mi aiutasse a scappare. Ho trascorso tutta la mia infanzia desiderando di fuggire. Fuggire  è stata la cosa più potente della mia infanzia.

 

Fuggire da cosa? E per dove?

 

Camminavo, camminavo, camminavo fino ad arrivare al porto. Lì potevo nascondermi tra quegli enormi sacchi di zucchero, in una di quelle barche. E una di quelle barche mi avrebbe portato in quel paese mitico per me, che erano gli Stati Uniti.

Dicevo alla mia mamma bianca: “portami, portami per mano”. E lei mi diceva che no, non poteva. A volte l’aspettavo e lei non veniva. Ero già totalmente alienato da me stesso. Volevo essere bianco, volevo solo amici bianchi, volevo cambiare pelle, cambiare capelli, tutto. Questo è stato il primo esilio, un esilio ontologico. Normalmente le persone sanno cosa sono, non si pongono il problema. Ma io non lo sapevo, non volevo essere quel che ero e, per il fatto di non voler essere quello, non sapevo cos’ero.

 

Com’è non sapere quel che si è?

 

Ti senti costantemente in uno stato di mancanza (la voce di Moore si fa incerta). Non ho la pelle giusta, non ho il naso giusto, non ho le labbra giuste, non ho il corpo giusto, non ho. Tutto è mancanza. L’unica cosa che mi ha salvato durante l’infanzia è stata la mia intelligenza (la voce torna sicura). Perché a scuola potevo non studiare e superare bene le prove, meglio che i ragazzi bianchi che studiavano sempre.

 

E quando si guardava allo specchio, cosa vedeva?

 

Mi vedevo come un qualcuno grottesco, sempre brutto. Ed ero anche strabico. E allora le persone dicevano sempre “Pichón, pichón, pichón...”. io non mi guardavo allo specchio. E poiché a casa mia non c’era nessuna mia foto, questo era rinforzato. Pensavo riguardasse me, non avevo ancora la percezione che fosse con tutti i neri.

 

Sua madre nera, concreta, sembra esser stata una persona ambigua. Allo stesso tempo in cui la picchiava costantemente e le stirava i capelli, era lei ad affrontare i bianchi e a incentivarla a farlo. Come si rapportava a quest’ambiguità?

 

Lei è stata la prima persona a parlarmi della schiavitù. L’unica che mi ha insegnato a resistere, l’unica a dirmi che dovevo affrontare questo mondo. Mio padre era totalmente il contrario, cercava solo l’approvazione dei bianchi. E i bianchi dicevano ch’ero la vergogna di mio padre. Ma di mia madre avevano paura, i bianchi temevano che andasse ad affrontarli, perché lei faceva delle gran scenate, con chiunque. Le scenate di mia madre, in questa piccola città, erano maiuscole. Ma io riuscivo a starle vicino solo di domenica, quando ascoltava l’opera alla radio e piangeva. Restava ad ascoltare quella musica, rammendando vestiti e piangendo. In quei momenti, mi toccava.

 

Oggi come vede questa madre?

 

La guardo capendo che è stata una ragazzina stuprata dal patrigno a tredici anni. Il più grande dei miei fratelli è figlio di uno stupro. Mia madre è arrivata dalla Jamaica e, in pochi mesi, già era stata stuprata e rimasta incinta. Sto scrivendo un altro libro, “Le prese del caos”, che parla di queste realtà storiche. In questo libro i miei genitori sono i protagonisti. Attraverso di loro, parlerò della vita di tutti gli altri. Di questa povertà immensa, drammatica. Dell’odio che hanno affrontato a Cuba per il fatto d’essere neri immigrati dalle isole caraibiche, considerati barbari e primitivi. Poco prima che morisse, ho parlato con mia madre negli Stati Uniti, nel New Jersey, dove abitava. È stato Alex (Haley) che mi disse: “Devi sapere cos’è successo”. Allora sono stato a parlare con lei e poi con mio padre, che abitava a Brooklyn. È stato allora che ho saputo di non essere figlio di mio padre ma del suo migliore amico, a cui mio padre aveva affidato la sua famiglia. Questo successe quando mio padre dovette partire in cerca di lavoro e passò molto tempo senza tornare. Lei, piena di figli, pensò che fosse morto. Quando mio padre finalmente tornò, lei aspettava un figlio da questo amico. Ero io. Ma quando l’ho saputo avevo circa quarant’anni. Poi, ho parlato con mio padre. Stava seduto, prendendo il sole. Era già cieco. Mi disse che mia madre non avrebbe mai dovuto dirmelo, perché avevano un accordo su questo. Ma era una città piccola e io passavo tutto il tempo a litigare con gli altri ragazzini perché chiamavano mia madre “puttana” e non sapevo perché. “Puttana, puttana, puttana”. E quei due uomini quasi si uccisero per questa gravidanza. Ho registrato tutta la conversazione con mia madre e mio padre. Mia madre mi ha raccontato tutte le cose orribili che ha passato. Tutta la fame. E i figli, uno dopo l’altro, perché non sapevano come evitarli. Lei sempre incinta. Mi resi conto allora dell’orrore ch’era stata la loro vita. Erano vite tragiche.

 

Ma suo padre, di fatto, quello che l’ha allevato, al contrario di sua madre l’ha accettato del tutto come suo figlio, vero?

 

Sono stato il suo preferito. Ancora oggi mi ricordo l’odore di quei sigari e io adoro i sigari per questo, l’unica cosa che fumo sono i sigari. Mi ricordo il profumo che mio padre usava, era un profumo che di tanto in tanto gli portavano dagli Stati Uniti. Quando parlammo, lo ringraziai per tutto l’amore che mi ha dato. Gli ho detto quanto l’amavo. E ho detto: “Tu sei mio padre”. Il ciclo era chiuso.

2) La donna nera: la più oppressa tra gli oppressi

Questa scissione, tra la madre bianca buona e la madre nera cattiva, ha influenzato la scelta delle sue partners, per quanto si capisce dalla sua autobiografia. Com’è stato?

Si, perché questo transfert si verificava quando conoscevo donne bianche che avevano questo tipo di fenotipo, che corrispondevano alla visione di ciò che per me era bello. Tutto quel che dovevo essere con loro era bravo a letto. Non era una relazione, nel senso di esplorare profondamente l’altro. Era una performance. Erano relazioni sessuali da fiction. Ogni incontro con una donna binca era come in una telenovela. Erano donne che non sapevano nulla delle questioni razziali, volevano solo del buon sesso, un nero a letto che alimentasse i loro fantasmi sul maschio nero. E loro alimentavano i fantasmi che io avevo. E questi fantasmi erano legati a quell’altra visione, che poteva essere anche incestuosa, visto che corrispondevano a quella donna mitica creata nella mia  infanzia. Che era buona con me, che mi portava regali. La relazione profonda è iniziata solo quando ho cominciato a conoscere donne nere, coscienti di quel che sono, che si stavano ponendo il problema dell’identità e che mi hanno obbligato a pormi il problema della mia identità. Lì è iniziato un altro conflitto.

Maya Angelou

Maya Angelou

La storia di sua madre l’ha avvicinata alla storia della donna nera?

 

Si. Ho iniziato a comprendere la storia della donna nera a partire da Maya Angelou e da tutte le scrittrici nere che sarebbero diventate delle grandi ma che, durante la mia adolescenza, a New York, erano le donne con cui ho vissuto senza rendermi conto della loro importanza. Ho un debito con le donne nere che è impagabile, per avermi portato a capire chi ero. Così, ho il dovere di partecipare a questa lotta affinché la donna nera recuperi dignità in questo sistema, dignità che l’è stata sottratta brutalmente da quattro secoli.

Qual è il ruolo di un uomo nero di fronte alla perdita di dignità sofferta dalla donna nera?

 

C’è una situazione di profonda solitudine della donna nera. La donna nera è rifiutata universalmente, è calpestata. Se vuole essere un nero cosciente, un essere umano cosciente, un uomo nero deve guardare a questo aspetto. Non può essere complice di questa oppressione storica della donna nera. La donna nera è l’essere umano più oppresso di tutte le categorie di persone emarginate al mondo. E non lo si può ignorare. È per questo che Obama ha fatto qualcosa di straordinario, nel far entrare questa donna nera, di pelle nera, alla Casa Bianca, come sua sposa, come madre delle sue figlie, quando in realtà la società non aveva programmato questo. La società aveva programmato che qualcuno a questo livello, con questo successo, portasse automaticamente una bionda alla Casa Bianca. Lui rompe un tabù e si trasforma non soltanto in un presidente nero ma anche nell’uomo nero che restituisce alla donna nera il senso di autostima  e rispetto che questa donna deve avere, in primo luogo.  

 

Il sistema razzista ha già reso impraticabile la relazione tra uomo nero e donna nera fin dai tempi della schiavitù. Il razzismo ha già determinato che le bianche sono per il matrimonio, le mulatte per il sesso e le nere per il lavoro. Questo è legge da quattro secoli. Allora, quando un uomo nero, come me, capisce il significato di tutto questo, inizia ad avere un altro sguardo verso la donna nera. Inizia a cercare un dialogo con lei, anziché calpestarla, anziché riprodurre tutta la storia di oppressione. È un dialogo molto difficile, perché in quattro secoli, l’uomo nero e la donna nera non hanno avuto una situazione che permettesse loro questo dialogo. Per abbattere il razzismo è indispensabile che l’uomo nero e la donna nera affrontino questo  discorso.

 

3) La Cuba di Fidel: un regime che ha riprodotto il razzismo

 

Perché ha deciso di scrivere quest’autobiografia?

Nel 1966 ebbi un’embolia polmonare e sono rimasto tre settimane tra la vita e la morte, in un ospedale di Trinidad e Tobago, dove lavoravo come professore universitario di Relazioni Internazionali. Pensai che, se fossi morto, tutto quel che avevo bisogno di dire sulla mia esperienza della rivoluzione cubana, sarebbe andato perduto. Le persone hanno una visione della rivoluzione come generosa, corretta con tutti. E c'è stata la peggiore repressione di omosessuali, di neri. Allora ho pensato che, fossi sopravvissuto, sarei uscito dall’Università e sarei andato in un luogo dove nessuno mi conoscesse come militante, per scrivere questo libro. Scelsi Salvador, a Bahia. Bahia per me è come se fosse un paese. La gastronomia, la musica, il candomblé... Volevo un luogo dove vivere tranquillamente e terminare quest’opera.

Carlos Moore (al centro) con Fidel Castro ad Harlem nel 1960

Carlos Moore (al centro) con Fidel Castro ad Harlem nel 1960

Che vuoto si apre nella sua vita quando scopre che la rivoluzione cubana sta riproducendo razzismo?

 

È stato uno choc. Avevo la necessità ontologica di credere che bianchi e neri potessero cambiare assieme la società. Quando scopro che stanno mentendo tutti e stanno distruggendo le organizzazioni nere, distruggendo il candomblé, distruggendo tutto ciò che è nero, perché non vogliono convivere con queste differenze, perché vogliono creare un nuovo nero, un nero sottomesso, un nero comunista, è stato un grande choc.

 

Quel che proponevano erano un nero senza colore, un cubano senza colore. Ma io volevo la mia identità, non mi volevo sminuire e essere senza colore. C’era questo discorso dell’essere tutti cubani, solo che il colore cubano continuava a essere bianco, visto che c’era un solo nero al comando, che era manipolato da Fidel, come già avevo potuto vedere personalmente negli Stati Uniti. Allora ho detto “no”. Ma è stato un grande choc capire che questi dirigenti bianchi non avevano la minima intenzione di convivere con gente come me. Non posso descrivere quel che Fidel Castro rappresentava per me.

Simboleggiava la rivoluzione e per me la rivoluzione era come la sostituta di una madre. Era quella cosa a cui potevo affidarmi e amare e essere amato. Da cui essere accettato e amato. Accettato com’ero. E che non mi avrebbe mai rifiutato. Poi l’incontro e lei mi rifiuta, per come sono. È per questo che ho fatto tutte le pazzie che ho fatto, perché ero convinto che Fidel non ne facesse parte. Che quelli erano gli stessi bianchi razzisti di sempre ma che non erano la rivoluzione. Quando ho scoperto che Fidel era quello che stava alla testa di tutto questo, sono andato in pezzi…Tutto questo mi è successo quando non avevo neanche vent’anni.

 

Lei ha fatto una confessione, negando ci fosse razzismo a Cuba, per fuggire da un’altra prigione o anche qualcosa di peggio. Come si sente rispetto a questo?

 

Molte volte mi sono chiesto perché non accettai d’essere fucilato invece di confessare quel che volevano che confessassi. Me lo sono chiesto molte volte. E non ho alcuna risposta oltre a quella che avevo. Era arrivato un momento in cui sapevo che la morte era lì e che per evitarla dovevo soltanto mentire. E quello è stato il momento in cui mi sono detto: “mentirò”. Perché quelli che mi stanno chiedendo di mentire sono dei bugiardi. Quindi non sto tradendo proprio nulla. Non ho mai fatto il nome di nessuno, non ho mai coinvolto nessuno. Ho accusato me stesso, dicendo “sono stato io”. Mi sono assunto tutta la responsabilità. Il regime cubano può esibire questo documento in qualsiasi momento e mostrerà soltanto che Carlos Moore disse di aver agito da solo.

 

Lei è tornato a Cuba per una visita, anni addietro, ha incontrato di nuovo i suoi fratelli e ha conosciuto la sua famiglia da parte del padre biologico. Come vede la Cuba di oggi?

 

La Cuba di oggi è molto più complessa di quando denunciavo il razzismo di quei tempi. Il fatto di negare il razzismo ha fatto sì che il razzismo occupasse tutti gli spazi. Quindi il razzismo a Cuba si è rinforzato. Non si esprime nello stesso modo in cui si esprimeva prima della rivoluzione, con la segregazione razziale, nei luoghi pubblici. Ma la segregazione razziale è tanto forte quanto qui in Brasile. Nel potere politico, economico, cose semplici come i contenuti della televisione. È molto forte. L'unica grande differenza che c’è nella Cuba di oggi è che esiste un numero notevole di neri che appartengono a una classe media che ha studiato. I miei stessi fratelli, per esempio, sono tutti professionisti. Per sopravvivere, la rivoluzione ha dovuto professionalizzare i neri cubani.

 

E questo non è un cambiamento importante?

 

È un cambiamento importante perché entra in collisione diretta con la Cuba che sta sorgendo con Raul Castro, che è questa Cuba capitalista, di tipo cinese. Perché questa è una Cuba che esclude totalmente i neri, professionisti e no. E allora ci sarà una collisione perché esiste ora una massa di neri che pensano, analizzano, che comprendono la loro situazione. Il regime cubano dovrà occuparsi di un problema enorme. Nello stesso modo del Brasile di oggi, che sempre più sta affrontando il problema sempre maggiore che è il rafforzarsi di una classe media nera sempre più cosciente della sua situazione.

 

E come vede Fidel Castro, quest’uomo che ha finito per avere tanta importanza anche nella sua vita?

 

Fidel ha fatto qualcosa di molto importante per Cuba, la rivoluzione è stata importante. Nonostante tutte le cose che sono successe, non avrei mai preferito una Cuba senza rivoluzione. La rivoluzione era necessaria, a Cuba, ed è diventata quel che è diventata. La rivoluzione è morta, è stata distrutta, assassinata, ma il tempo in cui è esistita, come speranza che ha davvero unito questo popolo, che ha permesso ai neri di sognare una società nuova e che ha permesso a molti bianchi di sognare una società in cui quelle differenze razziali e quel conflitto razziale potessero essere vinti, è stato un momento importante. Anche il fatto che Fidel sia stato un leader in grado di sfidare gli USA è stato importante. Ora, questa militarizzazione resa necessaria dalla resistenza contro gli USA ha convertito Cuba in Sparta, distruggendo tutti gli spazi di espressione civile, che non sono più tornati.

 

Lei fa una differenza tra rivoluzione e regime. Qual è?

La rivoluzione è una speranza collettiva. L’essere umano cerca continuamente di ampliare i parametri di libertà nella sua esistenza, e la rivoluzione è questo momento. C’è stata una rivoluzione russa? C’è stata. È morta? È morta. C’è stata una rivoluzione in Cina? C’è stata. È morta? È morta. È stata uccisa? Sì. I popoli mettono la rivoluzione in movimento e subito quelli che detengono gli strumenti di controllo la uccidono. Quindi è sempre questo viavai. Questo conflitto, questa contraddizione.

4) Incontri con Malcolm X e Aimé Césaire, disincontro con Sartre

Lei ha vissuto un’esperienza molto particolare, quella di vivere in un mondo polarizzato, quello della Guerra Fredda, ed essere sospetto per entrambi i lati, perseguitato da entrambi, fuori posto da qualunque lato. Com’è questa esperienza di incarnare un non-luogo, nel senso più profondo?

 

C’era gente che mi accusava di essere un agente dell’imperialismo, da un lato, altri di esserlo del comunismo, dall’altro. Allo stesso tempo. Mi sentivo completamente vittima di un’ingiustizia. Fino al punto di non poter più resistere. Non riesci a provare niente. Quanto più tenti di provare qualcosa, quanto più dicono che stai camuffando la verità. Mi resi conto che, per quelli che si dicono di sinistra, o per quelli che si dicono di destra, non importa la verità. Per loro la verità è qualcosa di relativo. Hai un avversario, quindi lo elimini nel modo più efficace: con le calunnie. Ma queste menzogne distruggono l’essere umano che è bersaglio di questi attacchi. Ci furono momenti in cui sentivo di non farcela più. Ricordo almeno tre momenti della mia vita in cui pensai seriamente di abolire la mia vita.

Carlos Moore con Malcolm X, Parigi 1964

Carlos Moore con Malcolm X, Parigi 1964

Potrebbe descrivere uno di questi momenti?

 

L’ultima volta parlai con la mia attuale compagna, Ayeola. Mi sedetti con lei in un giardino, a Guadalupe, e dissi: "Non ce la faccio più ad andare avanti, non riesco neanche a spiegarti il dolore che sto sentendo”. Lei mi guardò e disse: “Va bene. Allora fallo. Capirò. Se stai provando così tanto dolore da voler mettere fine alla tua esistenza, devi farlo”. Questa fu la cosa più meravigliosa che qualcuno potesse fare per me. Mi sentii libero, liberato, realmente libero. Questa autorizzazione, della donna che mi amava, fece in modo che qualcosa si rompesse a partire da lì. Iniziai a vivere tranquillo sapendo che, in qualsiasi momento, potevo togliermi la vita. Passarono i mesi, gli anni... e questo mi aiutò ad affrontare questa situazione di accerchiamento permanente.

Alla presentazione del suo libro, alla Libreria da Vila, a São Paulo, lei ha detto che la persona che l’ha più influenzato è stato Aimé Césaire. Perché?

 

Perché era un uomo che manteneva una tranquillità straordinaria in mezzo a tutti i conflitti. Aderì al partito comunista e ne uscì, per una questione etica, l’invasione dell’Ungheria, e iniziò a essere attaccato violentemente. E fu attaccato anche dai gruppi di destra, perché predicava sempre una sorte di socialismo della negritudine, per la Martinica e per gli altri paesi neri. Mi toccò molto con il discorso sulla questione coloniale, specialmente quella parte fantastica che mi ha aperto nuovi orizzonti, quando disse: "Voi condannate Hitler perché? Quest’è una menzogna. Come potete condannare Hitler quando voi avete creato il traffico di schiavi, quando avete colonizzato tutta l’Africa? Lavori forzati, genocidi... non potete dire nulla contro Hitler. Hitler siete voi.” E disse anche: “L’unica cosa che potete dire di Hitler è che vi ha fatto del male perché ha ucciso dei bianchi! Questo sì, potete dirlo! Ma quel che non dite è che l’unico crimine per voi è che abbia fatto ai bianchi, durante un breve periodo, quel che voi riservate ai neri da secoli”. Questo mi impressionò moltissimo. È stata un’esplosione nella mia testa.

 

E com’è stato il suo “non-incontro” con Sartre?

 

Quando arrivo a Parigi, cerco Aimé Césaire e finalmente lo vedo, e lui mi ascolta su quel che sta succedendo a Cuba. E, in fine, afferma: “Non voglio credere a tutto quel che mi hai detto, non voglio crederci. Ma ci credo”. E lì mi disse che dovevo vedere varie persone, tra cui Sartre. Un giovane scrittore, amico intimo di Sartre, organizza quest’incontro in un caffè. Vidi Sartre là, con i suoi amici, mentre questo amico comune va a dirgli che sono lì per parlargli. Immediatamente, Sartre inizia a gesticolare e a far segno di no con la testa. Questo scrittore tornò, quindi, dove stavo: “Sartre ha detto che non ti riceverà, perché non parla con agenti dell’imperialismo”. Simone de Beauvoir e Sartre sono persone che amo, che hanno liberato menti. Sartre è stato colui il quale abbracciò la negritudine, che scrisse un testo bellissimo che si chiama “Orfeo Negro”, dove spiega agli intellettuali bianchi, di sinistra e liberali, cos’è la negritudine. Cose luminose. Questo Sartre era fondamentale nella mia vita. Quindi, per me, fu come un tradimento. Come se qualcuno mi pugnalasse. Ma è stato fondamentale nella mia vita, nel mio sviluppo come essere umano. Come Simone de Beauvoir. Sento molto amore per quei due…molto amore.

 

Qual è stata la sua esperienza con Malcom X?

 

Quando l’ho conosciuto, come leader negli Stati Uniti, non ero suo amico. L’amicizia è arrivata nei momenti drammatici in cui stava andando incontro alla morte. In quel momento, lui aveva quell’ossessione di poter rapidamente supportare l’insurrezione in Congo. Avevo poco più di vent’anni e pensai che tutto quel che potevo fare era dare tutto il mio sostegno a Malcolm perché potesse riunire volontari. Cominciai allora ad aiutarlo nel reclutamento di queste persone. Nel periodo trascorso in Francia, dovetti dormire con lui in hotel. O meglio, lui dormiva e io restavo sveglio. Appena si svegliava, dormivo alcune ore. Lui si occupava delle sue cose e poi cercavamo subito il posto dove far colazione, perché in albergo aveva paura di essere avvelenato. Erano gli ultimi momenti di Malcolm e lui lo sapeva.

Mi disse di avere le ore o i giorni contati, che stava per morire. E mi diceva sempre: “Devi fare attenzione a quel che ti sto dicendo, perché potrebbe essere l’ultima volta che io posso parlare”. E allora iniziò a parlarmi di tutto, della moglie, della vita, della rivoluzione, su come organizzare i gruppi in clandestinità… era un uomo molto generoso. Non era una persona espansiva, non era il tipo da abbracci, era un uomo molto riservato. Ma tutto filtrava attraverso i suoi occhi, da come sorrideva. E aveva una grande pazienza. Potevo parlargli per mezzora e non m’interrompeva mai. Restava lì, attento a tutto quel che l’altra persona gli stava dicendo. Le persone hanno di lui soltanto questa immagine del grande agitatore, ma Malcolm era un uomo molto tranquillo, molto generoso, molto affettuoso…

 

E come ha ricevuto la notizia del suo assassinio?

 

Quando seppi della sua morte faceva freddo, a Parigi, io uscii e camminai per ore. Fu uno dei momenti più difficili per me. Avevo ventidue anni. Per l’omicidio di Patrice Lumumba, volevo solo vendetta. Lo amai senza mai averlo visto, lo amavo solo per le cose che diceva. C’era una fragilità in Lumumba. Era un uomo magro, alto, ma quando diceva che avrebbe creato una nazione in cui i neri potessero essere rispettati, che tutti i neri, da qualsiasi parte del mondo, potevano andare in Congo, fu una rivelazione per me, a 18 anni. Invece con Malcolm fu un sentimento di impotenza totale, perché avevo vissuto con lui e lo amavo. Mi ricordo di un momento in cui gli stavo presentando delle reclute per il Congo e una delle donne che avrebbe prestato servizio come infermiera lo interruppe. Mi arrabbiai: “Non interrompere brother Malcolm”. Malcom si fermò, mi guardò, mise una mano in tasca, prese una moneta da un dollaro e disse: “Brother Carlos, cosa c’è dall’altro lato di questa moneta?”. Gli dissi che non lo sapevo. E Malcolm disse: “Ok, non interrompere mai più una donna, perché le donne vedono sempre l’altro lato della moneta”. Non l’ho mai dimenticato.

5) Il Brasile, la maggioranza nera e la crescente tensione razziale

 

Lei ha fatto ricerche sul razzismo in vari paesi, in quattro continenti. Cos’è il razzismo dal suo punto di vista?

 

Il razzismo non è un semplice insieme di preconcetti aberranti, né una confabulazione ideologica usa e getta, neanche una realtà opportunista sorta da poco, e ancor meno una “malattia”. Si tratta di una struttura di origine storica, che svolge funzioni benefiche per un gruppo, che attraverso di esso costruisce e mantiene il potere egemonico in relazione al resto della società. Questo gruppo strumentalizza il razzismo attraverso le istituzioni ed organizza, attraverso l’immaginario sociale, una tela di pratiche di esclusione. Così, preserva e amplia i privilegi sociali, il potere politico e la supremazia totale acquisiti storicamente e tramandati di generazione in generazione.

Carlos Moore tra Alex Haley e Aimé Césaire (Miami, 1987)

Carlos Moore tra Alex Haley e Aimé Césaire (Miami, 1987)

In una società già multirazziale e meticcia, servirebbe per preservare il monopolio sulle risorse, al segmento razziale dominante. Sarebbe un sistema totale che si articola fin dall’inizio attraverso tre istanze operative intrecciate ma distinte: 1) le strutture politiche, economiche e giuridiche di comando della società 2) l’immaginario sociale totale, che controlla l’ordine simbolico 3) i codici di comportamento che regolano la vita interpersonale degli individui che fanno parte di questa comunità. Così, non è possibile attaccare il razzismo in un solo luogo, perché nulla cambierà.

 

Al giorno d’oggi, il razzismo ha raggiunto un tale grado di sofisticatezza che nega se stesso e finge di non esistere . Negare l’esistenza del razzismo, trasformarlo in un tabù sociale, trattarlo come “aberrazione” o ridurlo a “discriminazione” e a “preconcetto” è il miglior modo di coprirlo e proteggerlo in quanto struttura sistemica. Per questo, ogni volta che l’essere umano lo nega o lo semplifica, si trova automaticamente in una posizione di “complicità sistemica” con esso.

 

E come vede il razzismo nel Brasile attuale?

 

Bianchi e neri si stanno facendo una lotta terribile. E i bianchi non sanno neppure di farne parte. Alcuni sanno e fingono che la lotta non esista. Ma solo una minoranza, molto piccola, è cosciente di questa lotta. La maggioranza non vuole neppure sapere.

 

C’è qualche specificità nel razzismo brasiliano?

 

Non sto cercando nessun luogo idilliaco, non esiste per me. Quello che voglio dire nel mio libro "Razzismo e società" è che dobbiamo guardare al razzismo partendo dai modelli. Il razzismo qui in Brasile viene da un modello specifico, e questo modello viene dalla penisola iberica. È il modello della schiavitù già naturalizzata, dove i neri crescono in schiavitù, sapendosi schiavi.  Dove c’è un sistema clientelare, dove c’è una gradazione di colori. Questa è una schiavitù che ha mille anni di  radicamento.  In essa il subalterno all’interno del sistema accetta la sua attività, la vede come normale. In questo sistema, il razzismo è il latte che nutre il nero tutti i giorni.

 

Un razzismo naturalizzato?

 

Si. Quindi tutti vogliono questa pulizia del ventre, della pancia. Le donne nere  cercano costantemente il  modo di far uscire i loro figli dalla schiavitù. E qual è l’unica uscita? È che loro siano meticci, siano mulatti. Una situazione di transito sessuale tra l’uomo bianco e la donna nera.

Non è l’uomo nero che sta "mescolando la razza  bianca" ma l’uomo bianco che sta "mescolando quella nera". Quando arrivano spagnoli e portoghesi è la prima cosa che fanno con indigene e africane. La donna bianca viene poi, a sistema già stabilizzato. Quindi questo è un modello molto più difficile, perché tutto è naturalizzato, tutto normato. Le cose fluiscono, il sangue sta fluendo all’interno del sistema in maniera normale.

 

Sembra che qualcosa di forte stia succedendo in Brasile in questo momento, rispetto al razzismo, anche se molti bianchi non lo vedono o non vogliono vederlo. Quanto lo si deve alla prima generazione di neri arrivata all’università grazie alle quote razziali?

 

È per questo che c’è tanto panico. Arrivai qui nel momento in cui il panico iniziava a scatenarsi. Il movimento nero ha fatto un lavoro colossale in questo paese. E che è arrivato a influenzare i partiti. Poi si sono visti questi neri che entravano all’università, portando con sé candomblé, favela, quilombo... l’università è rimasta in stato di choc. Era un corpo estraneo ad essere entrato e io me ne sono reso conto. Non vedevano l’entrata di studenti ma di soldati stranieri. Vedevano questi studenti come un’invasione dell’università.  E mi sono reso conto che questo sacro spazio bianco, era stato sconsacrato.

Di fronte a tutto questo, iniziò una reazione così forte, contraria, che arriva fino ai nostri giorni. Divenendo sempre più complessa, trasformandosi in ogni forma di opposizione, con una maschera politica. Per la prima volta in questo paese i bianchi hanno sentito dire che i neri erano la maggioranza. La popolazione bianca sembra viverlo come uno stupro. La razza nera è un fallo e quella bianca un’enorme vagina. C’è una tensione costante. Questa penetrazione nell’università è stata vista, simbolicamente, come qualcosa di molto, molto profondo. E lì immediatamente la repulsione è stata generale, nella società bianca. Con le quote razziali e le altre iniziative sono state liberate forze che nessuno conosceva. Ho sentito che c’era un potenziale reale di cambiamento che stava agendo nella società. È a questo punto che comincio a veder, a sentire, che questo paese ha possibilità di cambiare questo quadro. Le maschere iniziano a cadere. E il Brasile è un paese di maschere, tante maschere…

 

È importante che le maschere cadano?

 

È importantissimo. La società americana ha questa possibilità così grande di discutere e di avanzare in questa questione così difficile, che è la questione razziale, perché lì le maschere vengono strappate con più facilità. Si discute della questione razziale da generazioni. Qui, no. Lì quando si ammazzano otto, nove neri in una chiesa, si dice chiaramente che sono stati uccisi perché sono neri. Punto e basta. Qui, se bruciano un indio, lo bruciano per un’altra ragione. Se uccidono un nero, uguale. Ma le maschere stanno cadendo.

 

Il mito della democrazia razziale è una maschera che cade?

 

Rompendo il mito della democrazia razziale, il movimento nero ha rotto l’ideologia su cui si sostenta questo paese. Questo paese si è presentato al mondo intero come l’unico paese dove tutto sta andando bene tra bianchi e neri. E i neri fuori da questo paese ci credevano. Tutti parlavano di questo paese come di un miracolo, fino a quando i neri di qui, in decadi di lotta, non hanno finalmente rotto il mito della democrazia razziale. Ricollocarlo qui è impossibile. Dovranno inventarsi qualcosa di nuovo.

6) I bianchi e la negoziazione del potere

Cosa succederà quando le maschere finiranno di cadere?

 

Non so cosa verrà… perché questi sono momenti in cui può succedere il meglio o il peggio

 

E cosa sarebbe il meglio e cosa il peggio?

 

Il meglio sarebbe una discussione in questo paese, in cui si parli chiaramente di quali sono i problemi. In cui ognuno dica quel che ha dentro. In cui ognuno dica quel che ha da proporre. In cui ognuno parli della propria relazione con il paese. La relazione razziale si sovrappone a tutte le altre considerazioni: di sesso, di genere, di nazionalità, di religione… stiamo arrivando a un momento in cui queste cose vengono dette. Alcune persone già si rendono conto che questo è un paese con una maggioranza nera  e questo determina un panico esistenziale enorme, in quella parte di popolazione bianca, in cui la mistica della questione razziale è radicata, come in Sudafrica.

Carlos Moore e Fela Kuti

Carlos Moore e Fela Kuti

Ho visto questa stessa reazione in Sudafrica, quando si è iniziato a parlare di trasferimento del potere. La minoranza bianca non aveva mai sentito parlare di sé come minoranza. Nel Brasile degli ultimi quindici anni, la coscienza che i bianchi siano una minoranza, in un paese per lo più nero, sta crescendo. Sorge allora questo panico esistenziale, determinato da una considerazione razziale.

 

Lei ritiene che in Brasile ci sia un Apartheid, con la differenza che non é legale?

 

Qui l’ Apartheid appena non è giuridico. Ma sta ovunque, in tutti i loghi di potere e decisione. Non è legge solo perché, nel modello iberico, l’apartheid è un’apartheid di consenso. I neri sanno dove sono gli spazi dei bianchi. I bianchi sanno dove sono gli spazi dei neri. E anche fin dove i neri possano andare. Tutti sanno qual è il loro posto e il posto del bianco è sempre dominante. Ma ora, per la prima volta nella storia del paese, è arrivata l’ora di interrogarsi.

Lei dice che il meglio sarebbe una discussione aperta, nella quale si da il giusto nome a ogni cosa.

E quale sarebbe il peggio?

 

Il peggio è quel che è già successo in Germania. Il razzismo è fascismo. Il razzismo è nazismo. Soltanto che noi siamo abituati a pensare al nazismo come ai campi di concentramento. Ma il nazismo non è campi di sterminio, quello è solo un suo momento estremo. Lo sterminio simbolico e fisico, senza lager, si sta verificando ogni giorno. E questo nazismo quotidiano, nazismo di tutti i giorni, è accettato. Perché la società bianca dominante lo sta vedendo come una risposta all’aggressione dei neri, che stanno arrivando sempre più vicino a quello che non devono avere, che è il potere. C’è già l’idea, nella nazione, che prima o poi i bianchi dovranno negoziare il potere politico e economico, come lo hanno negoziato in Sudafrica. Prima o poi succederà. Nei prossimi quindici anni, con certezza, la maggioranza nera dovrà riflettersi in tutte le istanze del potere politico. Il bianco di questo paese non ha mai pensato in termini di negoziazione razziale. Con chi avrebbe dovuto negoziare? E perché? Ora, per la prima volta, questa idea sta cambiando, simbolicamente, perché esiste una contestazione nera. A volte è solo una protesta per quello che si vede in tv, in cui i neri dicono “non vogliamo questo”. E i bianchi dicono “che diritto hanno loro di dire cosa vogliono o no? È soltanto televisione… “. Ma i neri dicono che non vogliono questo tipo di intrattenimento. Allora i bianchi dicono che si tratta di fascismo dei neri. Questo dimostra che c’è un ovvio momento di conflitto. Visuale. Gli stranieri vedono questo più facilmente dei brasiliani. Arrivano qui e vedono che la tensione è sempre maggiore. Il Brasile di oggi non è più quello di 15 anni fa.

Lei dice di non amare il concetto di tolleranza. Perché?

La parola tolleranza è portatrice di rifiuto.  E veicola l’imposizione di tutto un modo determinato da quel che dice di tollerare. Tollero, ma il modo buono è il mio. Per me l’importante è lo scambio col diverso. Quella spiritualità, che non ha niente a che vedere con la religione, che sta nel sentire la connessione con tutti quelli che non conosco. Io voglio conoscere e avere un buon rapporto con il diverso, in quanto diverso. Voglio far parte del suo mondo, anche. Nella misura in cui io possa. E volerlo anche nel mio mondo. Nella misura in cui anche lui possa. È molto arrogante parlare di questo tollerare. Quando qualcuno qui in Brasile dice che tollera i neri e non ha niente contro di loro, sai già che è un razzista che sta parlando. È ora di rompere queste maschere. Dì, allora, francamente, che non ti piacciono i neri, che credi siano sporchi, puzzolenti,  pericolosi, da castrare, anche intellettualmente. I neri sono una minaccia per il mondo occidentale, specialmente per il Brasile. Il Brasile si elegge come parte del mondo occidentale. Quindi le sue reazioni sono quelle occidentali. E il mondo occidentale si considera oggi invaso da neri e arabi. Nella Germania nazista, gli ebrei furono convertiti in neri.  E ogni volta che converti un gruppo bianco in nero, devi far salire più su il livello del bianco, per questo Hitler lo cambiò in ariano. Ora stanno convertendo gli arabi in neri, quindi devono cambiare la dimensione bianca in un'altra dimensione, super bianca. Perché gli arabi sono bianchi nei loro paesi. E i bianchi qui in Brasile si considerano invasi dai neri.

Come questo processo di “più bianco” si starebbe verificando in Brasile?

 

Ora c’è un problema qui in Brasile. Nella misura in cui i neri di pelle chiara iniziano a definirsi neri, già inizia a essere troppo vicino. Allora i bianchi devono cambiare categoria. È come la cantante Fabiana Cozza (una delle amiche che ha ospitato Moore a São Paulo) che dice d’essere nera e che vuole essere riconosciuta nella sua negritudine. Nel dire questo, lei sta sovvertendo il sistema. E questo succede sempre di più. Solo che questo sistema è stato creato esattamente per l’opposto. Perché ogni volta che un nero avesse la pelle più chiara rinforzasse il sistema bianco di questo paese. Stiamo vedendo ora un dislocamento della  categoria bianca verso un livello superiore di barbarie. È questo che stiamo vedendo in questo momento: un dislocamento dell’essere bianchi in questo paese. Perché il nero si sta avvicinando troppo. Lo schema razziale brasiliano si sta rompendo e crea angoscia nella società bianca. Queste  angosce si stanno esprimendo attraverso molte cose.

Carlos Moore con la moglie Ayeola al loro arrivo a salvador Bahia

Carlos Moore con la moglie Ayeola al loro arrivo
a Salvador da Bahia

Quale deve essere il ruolo di un bianco nel Brasile di oggi, per quel che riguarda il razzismo?

 

Il Brasile è un luogo molto particolare, rispetto alle relazioni sociali. Particolare non per le ragioni che i bianchi sostengono, dicendo che le cose sono diverse che nel resto del mondo.

No, qui succedono come nel resto del mondo. L’oppressione del nero è brutale, severa, terribile. Il nero è stato confinato nei peggiori spazi, nell’immaginario, nello spazio fisico, in tutti gli spazi. Ma il Brasile occupa un luogo speciale perché qui i neri sono la maggioranza. E questo vuol dire che i bianchi non cambieranno paese. I bianchi sudafricani non hanno cambiato paese. Hanno dovuto comporsi e i bianchi del Brasile dovranno comporsi con la maggioranza nera di qui. Perché è una maggioranza nera che è sempre più in maggioranza. E questo processo non può più essere invertito, perché non c’è più possibilità di immigrazione bianca in questo paese.

 

Non esiste più alcuna possibilità che l'immigrazione europea arrivi fin qui. Quindi bianchi e neri sono in competizione demografica e i bianchi hanno già perso. I neri sono arrivati a essere di nuovo la maggioranza in questo paese. Come erano la maggioranza alla fine della schiavitù. Dopo l’abolizione, i bianchi hanno affrontato questa realtà importando milioni di europei. Davano loro tutti i vantaggi perché si stabilissero qui e allo stesso tempo, espulsero i neri da tutti gli spazi civili, sperando che morissero. Perché il piano era questo, eugenetico. E i bianchi poveri si univano alle donne nere, arrivando a una maggioranza di pelle chiara e bianca e a una nuova maggioranza bianca. Ora, questa maggioranza nera, che sarà sempre più in maggioranza, è sempre più cosciente della sua negritudine, dei suoi diritti, e cosciente del fatto di dover governare questo paese. Prima o poi, si dovrà negoziare.

 

Su cosa si baserà questa negoziazione?

È una negoziazione sul tipo di paese che vogliamo. È un dialogo profondo. Non è semplicemente quel discorso sul capitalismo. Si tratta di uscire da quella discussione sul capitalismo, sul socialismo, che era quella polarizzazione che avevo finora, basata sul “vogliamo il comunismo o vogliamo il capitalismo”. Ora, no. Il discorso è che tipo di paese vogliamo. Questo discorso è appena iniziato realmente in Brasile. Che tipo di paese ci permetterà di vivere in modo giusto, con tutte le risorse naturali che abbiamo. Penso questo sia un paese che riunisce molte condizioni per arrivare a un dialogo. E si arriva a questo dialogo attraverso un confronto in cui le maschere cadano e i neri dicano cosa vogliono da questo paese.

E quale sarebbe il ruolo etico di un bianco in questo momento?

 

Questa situazione già sta toccando le coscienze di quei bianchi che stanno iniziando a rendersi conto che il mondo in cui vivono non è quello in cui pensavano di vivere. Vivono, di fatto, in un mondo che è un orrore per la maggior parte della popolazione. Quindi, in queste circostanze, ci sarà forzatamente una convergenza tra due tipi di coscienza: una nata dalle esigenze etiche di una parte della popolazione bianca, che si ritrova in contraddizione con se stessa, come individuo, e un’altra che non ha questa esigenza etica. Avere una visione di se stesso è parte dell’essere umano. Quando alcuni bianchi si scoprono parte di un gruppo di oppressori, per questi è un grande problema. Ma per molti questo non avrà grande importanza, perché i privilegi sono così grandi che non è un problema. Ho visto questo problema diventar sempre più grande per bianchi di questo paese che si trovano in contraddizione etica con se stessi. Quindi, penso che questa situazione crescerà. Se non avessi visto questo processo manifestarsi in altri luoghi non ne sarei così certo. Non dico che i bianchi cambieranno, ma che alcuni bianchi cambieranno. E che costituiranno una riserva morale importante in questo paese.

 

7) Le due Afriche: la mitica e la reale

 

C'è questa dimensione mitica dell’Africa come origine, ma quando si parla di Africa, sono varie le Afriche. Qual è stato il suo incontro - o il suo scontro - conoscendone tante?

 

Quando lascio Cuba, vado in Egitto, ma lì non incontro l’Africa, incontro il mondo arabo. Vivo un anno in Egitto, dentro al mondo arabo. Vado verso la vera Africa quando vado in Nigeria per la prima volta. E lì incontro un’Africa terribile. Un’Africa di dirigenti assolutamente cinici, corrotti, mercenari, assassini. È uno choc molto forte. Perché la mia logica fino ad allora era di scontro con il mondo bianco. E lì lo scontro era con il mondo bianco, ancora, ma attraverso quella cosa di (Frantz) Fanon: “pelle nera, maschere bianche”. Queste classi dirigenti totalmente occidentalizzate che stanno opprimendo il popolo. Risolvo questo conflitto unendomi all’Africa della resistenza. Se non avessi abbracciato immediatamente la causa popolare in Africa, mi sarei sentito totalmente distrutto. Sarei diventato un perfetto cinico.

 

Che ruolo ha giocato quest’Africa mitica nella resistenza dei neri lungo la storia?

 

Abbiamo dovuto inventare un’Africa mitica per resistere quattrocento anni. Non è stato facile attraversare quattrocento anni senz’alcun riferimento positivo su di te, sulla tua razza nera. Abbiamo dovuto inventare un’Africa  che servisse da appoggio morale e spirituale. Un’ Africa che ci dicesse, che ci ricordasse costantemente che eravamo esseri umani, pur vivendo da quattrocento anni in un sistema che ti dice che non sei umano. In cui il bianco è l’unico riferimento di ciò che è umano, bello, buono, giusto, pulito e tu... sei soltanto sporcizia. Chi resiste a tutto questo? Quindi abbiamo dovuto inventare un’Africa che abbiamo mantenuto in segreto, come le religioni. Anche le religioni hanno avuto questo ruolo di darci quei riferimenti, per non sentirci sporcizia... rifiuti.

 

E l’Africa reale?

 

Oggi abbiamo bisogno di dire: “Abbiamo avuto bisogno di questo mondo mitico. Ma ora, guarda il mondo reale. L’Africa di oggi è questa. Dove i popoli vengono trucidati da canaglie. Milionari, mercenari e totalmente venduti all’estero. E le guerre civili sono causa di questo. Allora bisogna fare due cose: abbracciare l’Africa mitica per demistificare quell’Africa crudele. Avere la forza di arrivare fin qui, per poi avere le forze necessarie a confrontarsi con la realtà di oggi. Oggi mi sento molto a mio agio. Vado sempre in Africa ma so qual è il mio luogo. Non vado a fraternizzare con le elite africane. Le elite africane sono elite nemiche. Vado lì a fare qualcosa di ben preciso, so dove sta la linea di demarcazione.

 

8) Conclusioni dell’esilio: dove l’umano è reale

 

Quando leggiamo la sua autobiografia, sembra siano tante vite in una. Nelle ultime pagine del libro, lei scrive: “è stata una storia quasi inverosimile”. E sono tanti gli accadimenti e tante le persone coinvolte che possiamo avere davvero la stessa impressione. Perché i lettori devono credere alla sua storia?

 

No, non ci devono credere. In primo luogo, io non cerco di convincere. Il libro è stato scritto semplicemente perché sono stato portato a farlo da qualcuno che mi diceva: “devi raccontare quel ch’è successo”. E ho iniziato a raccontarlo. Questo mi è successo. E se il governo cubano ha prove che questo non è successo, che le dia. E se altre persone ne hanno prove, che le diano. Ora, che io sappia, questa è l’esperienza che io ho avuto. Questo è successo, con mia madre, mio padre, sono cresciuto così, mi sono ribellato così, sono andato negli Stati Uniti e un giorno una donna è arrivata e mi ha cambiato la vita. È stato così, io racconto... sto raccontando. Avrei potuto cambiare la mia storia tante volte. Il regime cubano mi ha dato molte possibilità di entrare. Mio fratello è andato in Russia, è diventato ingegnere, è tornato a Cuba, è entrato nel partito comunista. Tutti i miei fratelli e le mie sorelle stanno dentro al sistema. Io ho scelto una vita di resistenza, perché era quel che sentivo. E questo ha dato i frutti che ha dato.

Carlos Moore a Salvador Bahia durante la presentazione di "Pichon" - 02.09.15 (Foto Leo Ornelas)

Carlos Moore a Salvador da Bahia durante la presentazione di "Pichon"- 02.09.15 (Foto: Leo Ornelas)

E quando guarda a questa vita così immensa, cosa vede?

 

Non cambierei la mia vita. Quando senti oppressione e dolore, non vuoi altro che cessino. Ma le opportunità che avevo di farle cessare non erano degne. Allora mi rifiutavo di prendere quelle strade. Ma ho avuto mille opportunità di essere un delatore, di soddisfare l'intelligence francese che non faceva altro interrogarmi. Sono stato espulso da vari paesi, ma avrei potuto accomodarmici. Avrei potuto cambiare la mia storia mille volte. Ma non stai costruendo una storia. Stai vivendo una vita.

 

E qual è la differenza?

 

La vita è tutti i giorni ed è una vita di scelte. Anche ora ho delle scelte davanti a me. Posso zittirmi qui in Brasile. La cosa più prudente per me sarebbe di tacere, qui in Brasile. Perché possono buttarmi fuori dal Brasile in 24 ore. 

Denuncio il razzismo qui da quindici anni e posso essere accusato di interferenza con la vita dei brasiliani. È una scelta. Potrei scegliere di non farlo. Semplicemente per vivere tranquillo qui in Brasile. Mai la polizia è venuta a casa mia a dirmi cosa fare o non fare. Mai il governo brasiliano ha interferito con la vita della mia famiglia. Allora, perché denunciare, mettendo a rischio la mia pace? Ma la mia scelta è tenermi fedele alla vita che ho avuto fino a ora. Perché è l’unica cosa che mi dà pace. Se faccio diversamente, non sto in pace.

 

Lei si si sente esiliato, oggi?

 

Mi sentirò esiliato sempre. L’esilio ha già smesso d’essere qualcosa di burocratico per me. Alcuni cubani dicono: “Lui non è un esiliato, perché può tornare a Cuba”. Io torno a Cuba ad alcune condizioni. Loro mi dicono che non posso viverci, risiedere. Ma questa è una questione burocratica e domani potrebbero anche cambiarla.  Ma non cambierà il modo in cui mi sento. Faccio parte di una tribù di umani che non si sente bene in nessuno di questi sistemi.  Che non va d’accordo con il tipo di mondo in cui viviamo. Non vado d’accordo con il Brasile che sto vedendo. E domani esco dal Brasile, vado a Trinidad e Tobago, vado in Senegal , in Sudafrica, e non mi trovo d’accordo con la situazione di nessuno di questi paesi. Non mi trovo bene in Uganda, in nessuno di questi luoghi. Quindi io sento che il mio luogo è un luogo dove vivere il mio tempo. E il mio tempo è affermare alcune cose che dovrebbero essere evidenti ma non lo sono. Affermare che ci sono possibilità che sia diverso. Il mio tempo è un tempo in cui dire “no”. Di resistere.

 

Lei afferma che la cosa più importante è vivere con il proprio tempo. Cosa signifca, oggi?

 

La mia speranza si fonda sul possibile. Ritengo che sia possibile che l’uomo e la donna arrivino a una comprensione che l’oppressione creata dall’uomo è del tutto negativa. Io non ritengo che maschilismo, machismo e il sessismo siano inestirpabili dalla nostra esperienza umana.  Ritengo che bianchi e neri possano vedersi in un altro modo. Ritengo sia possibile fermare queste guerre senza senso. Non sto dicendo di avere una soluzione, questo è diverso. Ma trovo che sia possibile sovrapporsi a tutti i conflitti, che sono conflitti religiosi, intorno a cose che noi abbiamo creato, perché gli dei sono stati creati da noi, totalmente creati da noi. Non è tempo di affiliarmi a una fazione o a un’altra. Il mio tempo è il tempo delle possibilità.

 

Lei ha detto che nella sua infanzia non sapeva chi era. Oggi lo sa?

 

Perfettamente.

 

E lei chi è?

 

Sono un nero, nato a Cuba, ma che ha superato la sua "cubanità". Cuba non è un riferimento per me. È il riferimento della mia nascita, il luogo dov’è sepolta tutta la mia infanzia, tutto quel che mi ha formato, ma Cuba non è il luogo che forma il mio essere, la mia identità. La mia identità attraversa frontiere, tante culture, è qualcosa di molto più elastico. Io mi sento bene ovunque stia. Mi reinvento dove sto abitando, fondo una famiglia di amici. Quindi non vivo con questa pressione dei cubani che vivono fuori di tornare a Cuba. Sto in Brasile, vivo il momento del Brasile, vivo i problemi del Brasile. E quando sarò fuori dal Brasile, farò esattamente la stessa cosa. Ho fatto parte della lotta politica in Nigeria come in Senegal. Ovunque vada, prendo parte alle lotte di quel momento. Non voglio farmi prendere da una nostalgia permanente. I cubani vivono con la nostalgia di Cuba, ascoltando solo musica cubana, mangiando solo cubano... il riferimento della mia vita è molto più che Cuba,  molto più che il Brasile, molto più di qualsiasi paese.

Non c’è un solo paese in cui possa concentrare il riferimento di ciò che è la mia vita, di ciò che è la mia identità.

 

Qual è il riferimento per la sua identità?

 

Quel che mi fa star bene, come dicevo, è trovarmi d’accordo con il mio tempo. Quindi, tutto quel che disturba quel tempo, immediatamente suscita reazioni profonde in me. È per questo che non ho bisogno di definizioni. Le persone dicono: “Lei è di sinistra? Lei è di destra?”. Vogliono sempre che mi definisca in termini di destra o di sinistra. Queste distinzioni le conoscevo prima, mi definivo così. Ma dove sta la linea di confine tra destra e sinistra? Vediamo a volte gente di destra comportarsi come fosse di sinistra, per quanto riguarda la questione razziale. E quelli di sinistra comportarsi come quelli di destra, per quanto riguarda la questione razziale. Conosco gente di sinistra omofobica. Gente di destra, omofobica. Gente di destra e di sinistra sono simili in tanti punti. Quel che voglio dire è che per me la cosa più importante è il confine etico, certe cose nella mia vita che considero inviolabili.

Che sono?

 

Questa cosa della differenza, batto sempre su questo tasto. Perché per me è il più importante. A partire dal momento in cui la differenza non è rispettata, devo entrare in guerra. Per questo entro in guerra con il meticciato. Perché sta dicendo che non ho il diritto di avere questo fenotipo che ho, i capelli che ho e di essere rispettato per quello che sono. Che devo avere capelli diversi, lisci, che non devo avere la pelle nera, che i miei figli devono essere ogni volta più bianchi per essere rispettati in questa società. Io dico no. Assolutamente no. I miei figli devono essere rispettati per come sono nati, con la pelle nera, i capelli crespi, le labbra carnose, con in i nasi che hanno. Devono essere rispettati così. Quindi, è questa la linea di demarcazione più sottile della mia vita. È questa che definisce praticamente tutte le scelte che faccio.

 

Il rispetto per la differenza?

Carlos Moore

Carlos Moore

Assolutamente. Il fatto di essere stato proscritto da Cuba per 34 anni mi ha fatto capire che la nazionalità è un gioco, una barzelletta. Che le frontiere sono cose totalmente artificiali, che sono state erte e convertite in realtà sacrosante. E che queste frontiere non erano nulla, perché ad ogni frontiera venivo fermato, ero un sospetto. Sono entrato in una tribù di sospetti. Mi resi conto che tutta questa forza emotiva  dell'essere brasiliano, americano, cubano era un mito che gli esseri umani avevano costruito per mobilitarsi contro altri esseri umani. Viaggiavo con un documento delle delle Nazioni Unite, passavo molto tempo a ogni frontiera, aspettando che lo riconoscessero come autentico. Questo mi lasciava molto tempo per riflettere sulla condizione umana. Durante gli anni, quelle categorie di definizione di separazione iniziarono a cadere una a una. Religione, nazionalità, casta, classe sociale... nella misura in cui cadevano dovevo cercare il sostituto reale. Non il sostituto ideologico, ma dove si trovava la verità dell’essere umano, qualunque fosse. Dove un essere umano è reale? Sono arrivato al punto in cui sto, in cui mi identifico e mi sento bene. Penso di essermi trovato. Mi piace quel che sono. E penso di essermi trovato nella vita, nell’universo, nel senso più ampio.  Mi sono trovato in quello spazio in cui sto bene, che è questo spazio in cui posso guardare tutte le differenza, tutte, e non sentirmi minacciato. Non mi sento minacciato da nessuna differenza.

 

E dove un essere umano è reale?

 

Apparteniamo a una specie e non c’è coscienza di questa specie. Abbiamo la coscienza di definizioni ideologiche, ma la coscienza della specie non esiste. Essere umano implica una certa solidarietà e per me la solidarietà è un dovere. Di guardare l’altro che viene oppresso, escluso, discriminato e mettersi al suo fianco. In nome di questa specie. Siamo tutti parte di questa specie, che è minacciata, oltre tutto, anche da tutto quel che fa. Quando sento Obama dire che il problema principale non è il terrorismo ma il cambiamento climatico, lì tocca qualcosa in me che ho raggiunto duramente, dopo trentaquattro anni di rifiuti in tutti i sensi. Dobbiamo essere solidali tra noi, dobbiamo raggiungere un accordo. Per difendere l’esistenza qui, sulla terra. Se continueremo a esistere è infine la cosa più importante. La cosa più importante di tutte è: sentire solidarietà verso gente che non conoscerai mai, per persone che ancora devono arrivare e tu non incontrerai. E loro devono trovare una Terra abitabile.

Eliane Brum

Eliane Brum

 

è nata a Ijuí, nel sud del Brasile, nel 1966. Scrittrice, reporter e documentarista, vive ad Altamira, città amazzonica nella quale si è stabilmente trasferita nel 2017. Ha vinto moltissimi premi nazionali e internazionali di giornalismo ed è la reporter brasiliana più premiata della storia.

Nel 2021 è stata tra le vincitrici dell'antico e prestigioso Premio Cabot di giornalismo della Columbia University. In Brasile, nel 2019, con il suo libro “Brasil, Construtor de Ruínas: um olhar sobre o país, de Lula a Bolsonaro”, ha vinto il Premio Vladimir Herzog de Anistia e Direitos Humanos, che riconosce il lavoro di giornalisti, reporter fotografici e disegnatori che attraverso il loro lavoro quotidiano difendono la democrazia, la cittadinanza ed i diritti umani.

Collabora con El País e The Guardian. Ha pubblicato un romanzo, "Uma Duas" (2011), ed altri sette libri. Ad ottobre del 2021 ha pubblicato la sua ultima opera "Banzeiro òkòtó: Uma viagem à Amazônia Centro do Mundo". I suoi libri sono stati tradotti in diversi paesi. In Italia ha pubblicato “Le vite che nessuno vede” (Sellerio 2020) ed un suo testo in "Dignità! Nove scrittori per Medici senza Frontiere" (Feltrinelli 2011).

 

Site: elianebrum.com | Twitter, Instagram e Facebook: @brumelianebrum

 

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