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04.05.16

Tupi or not to be

In nome di Dio e del New York Times, la disputa sull’impeachment in Brasile

di Eliane Brum*, pubblicato su El Pais il 25.04.16

traduzione di Carlinho Utopia e Paolo Solinas

 

Il 17 aprile del 2016 ha reso esplicito che questa non è una mera crisi politica o economica. Ma anche una crisi di identità, di etica e di estetica.

I riflettori puntati sulla Camera dei Deputati, in diretta TV, hanno illuminato l’orrore.  E hanno illuminato l'orrore anche per coloro che sostenevano l’apertura del processo di impeachment della presidente Rousseff. Il giorno seguente, è successo qualcosa di altrettanto rivelatore: la disputa è stata spostata in territorio “straniero”. Non una disputa qualunque, ma la disputa su come denominare l'accaduto. Vale la pena seguire questa pista.

Eliane Brum - Foto: Lilo

La stampa internazionale punta il dito sul Brasile e dice, con alcune varianti, che lo spettacolo è ridicolo, che quanto accaduto è una sorta di circo. La presidente Dilma Rousseff ed il PT (Partito dei Lavoratori) vanno a giocarsi là fuori il nome della cosa: è un "golpe", o un “coup”.  Il presidente della Camera, Eduardo Cunha (PMDB), manda due inviati speciali a garanzia di un’altra narrativa: l’impeachment è legittimo, le istituzioni brasiliane funzionano, e tutto si sta svolgendo nel rispetto delle norme. Voci si alzano per accusare la Rousseff di pregiudicare l’immagine del Brasile all’estero, riducendolo ad una “repubblichetta delle banane”. All'Onu, Dilma fa un passo indietro e sceglie, per rappresentarla ufficialmente, un’altra parola meno dirompente: "regresso". Ma la disputa non è data da questo. La guerra è piuttosto nel territorio dei narratori. Ed i narratori contemporanei si trovano in gran parte (ancora) nella stampa.

 

La disputa dell’impeachment ha approfondito ciò che già era stato esposto nelle manifestazioni del 2013: la crisi della stampa brasiliana non è solo nel suo modello di business, ma di credibilità. Come accade con i partiti politici, quella della stampa è una crisi di rappresentanza, in quanto porzioni significative della popolazione non vi si riconoscono. In questo senso, lo sguardo altrui, qui rappresentato dalla stampa internazionale, restituisce un elemento senza il quale non si può fare giornalismo degno di questo nome: restituisce lo stupore, punto di partenza di chi desidera decifrare il mondo che vede.

 

E, a partire dallo stupore, cerca di comprendere come una presidente democraticamente eletta con 54 milioni di voti, senza una responsabilità penale comprovata, venga sottoposta ad un processo di impeachment, capeggiato da un imputato dal Supremo Tribunale Federale (ndt. Eduardo Cunha), in una Camera in cui parte dei deputati è indagata per reati che vanno dalla corruzione allo sfruttamento di lavoro schiavo, in uno spettacolo che svela in maniera grottesca le fratture storiche del paese.

 

La narrativa montata da una parte della stampa brasiliana sul momento più complesso della storia recente del paese, il modo in cui questa parte dei media assume un ruolo da protagonista, così come le conseguenze di questa azione, meritano la massima attenzione. Forse molti libri verranno scritti su questo argomento, solo recentemente si è cominciato a porsi delle domande. In questo articolo, però, voglio seguire un’altra pista, che considero troppo affascinante per andare persa. Ma non si tratta di analizzare qui cosa la stampa ha di fatto detto, che è ben lungi dall’essere omogeneo come si vuol far credere. Non si tratta di parlare di “loro”, bensì di “noi”.

Se non riusciamo a costruire

una narrazione in proprio nome, come possiamo

costruire un paese?

La pista che qui voglio seguire parte dall'interrogarsi sul cosa significa portare la disputa narrativa sul territorio simbolico del grande altro, "lo straniero". E non uno straniero qualunque, ma uno che parla principalmente inglese e poi tedesco, francese e spagnolo (della Spagna, non dell’America Latina). E cosa significa dare a questa entità, chiamata "stampa straniera", la parola per dare un nome a quello che è successo – e succede – in Brasile.

 

Cos'è l’orrore, questo che ci perseguita da domenica 17 aprile? L’orrore è l’impossibilità della parola. Orrore è anche un’infanzia che non finisce mai. È tutt’altro che banale che in uno dei momenti  più ricchi di significati della storia recente manchino le parole per narrare il Brasile.

In parte perché queste sono state sbarrate dai muri, di una parte e dell’altra, impedendo il dialogo.

E le parole che non attraversano producono silenzio. In parte perché le parole sono state distorte, violate e svuotate. E questo produce lo spegnersi.

Ma c’è ben altro. Non è affatto banale che le parole che mancano vengano cercate altrove. Perché, se non riusciamo a costruire una narrazione in proprio nome, come possiamo costruire un paese?

 

Questo è l’abisso, come sapevano i modernisti del 1922. Questo continuerà a essere l’abisso, a meno che non ci si impegni nell’arduo compito di trovare le parole che ora ci mancano. O quantomeno inventarle. Non nella “lingua che si sfrega contro quella di Camões” (ndt. riferimento al celebre poeta portoghese Luis de Camões), come cantava Caetano Veloso.

 

È molto emblematico che invece di prendere l’iniziativa, noi brasiliani aspettiamo che “l’altro” venga a dare il nome alle cose, che l’altro dica il nome di quello che succede qui. Oggi, sempre meno l'Europa e sempre più gli Stati Uniti. Sempre meno Parigi e più New York. Sempre meno Le Monde e sempre più New York Times. Come se davanti ad una scena ancora indecifrata non fossimo in grado di parlare in nome di noi stessi.

 

Vale sempre la pena sottolineare che non si tratta di alcuna invocazione ai nazionalismi o ai purismi in stile Aldo Rebelo (ndt. attuale Ministro della Difesa, deputato del PCdoB - Partido Comunista do Brasil, con un passato a capo di vari ministeri e come presidente della Camera dei Deputati, famoso per le sue posizioni nazionaliste e progetti talvolta polemici, come quello riguardante la riduzione dei termini stranieri nella lingua portoghese).

È esattamente il contrario. L’altro, chiunque o qualunque cosa egli sia, può e deve parlare di noi. È importante che parli. Ma la domanda è un altra, è il perché deleghiamo a questa entità le parole che non siamo in grado di trovare (o di creare). E che è in relazione al gioco di identità/dis-identità essenziale per la costruzione di una persona, ed anche di un paese e come questo stia nella radice stessa della crisi.

 

Il Brasile, quello nato da un invasione europea e che per primo promuove il genocidio indigeno, e poi quello degli schiavi neri – entrambi ancora in corso, sia ben chiaro – nasce con la lettera del portoghese Pero Vaz de Caminha. Parte della nostra storia è raccontata attraverso le lenti di rinomati viaggiatori, come il francese Auguste de Saint-Hilaire. Ciò che si dice sul Brasile, e che dunque va a costruirne la narrativa, è raccontato in lingua straniera, come ogni paese che nasce dall'usurpazione del corpo di un altro.

 

Il Brasile, straniero a se stesso, dato che ciò che esisteva prima del 1500 non era Brasile, è costruito dal conflitto, dalla dominazione e dallo sterminio espresso anche nella costruzione della lingua. La lingua portoghese, per quanto impostasi attraverso coloro che la parlavano, venne adottata essa stessa dagli invasi e dagli schiavizzati. O dalle lingue indigene prima e da quelle africane poi. Se non fosse per questa contro invasione della parola, la resistenza degli invasi e degli schiavi, non sarebbe possibile l'esistenza di un paese con un nome proprio. Persiste e resiste nelle curve del corpo della lingua portoghese la vita dei morti.

 

Questa costruzione è un luogo di conflitto permanente. Basta ricordarci delle battaglie avvenute negli ultimi anni tra la tal norma colta del portoghese e le varianti del portoghese-brasiliano, considerate dalle elite come indesiderabili e minori, "errate". Basta ascoltare le lingue create nelle periferie urbane e nella foresta amazzonica, lingue vive in contrasto con il nome stesso di Brasile. Che nel momento in cui si disputa la narrativa sul cosa stia succedendo qui o sul nome da dare a questa cosa, la si affidi alla lingua dello "straniero", è forse "la nostra traduzione più completa".

Ci sono diverse ragioni e significati. Ma forse esiste anche una nostalgia del colonizzatore. Una domanda di paternità. O di autorità. Diteci voi, voi che sapete,  cosa sta succedendo qui. Dateci un nome.

 

Le nostre élite, come noto, sono zotiche. Prima corteggiavano la Francia, mentre ora è tutto in inglese. Americano, di preferenza. Gli Stati Uniti come colonia che è riuscita a diventare metropoli e infine, una grande potenza mondiale. Che una parte della stampa e delle elite si vedano adesso ridicolizzate in inglese è un'ironia tra le più interessanti.

che una parte della stampa

e delle elite si vedano adesso ridicolizzate in inglese è un'ironia tra le più interessanti

Con l’ascesa di Lula al potere, il primo presidente che non proveniva dall’élite, l'aspettativa di alcuni, tra i quali mi includo, era la fondazione di una nuova idea di paese. Detto in altri termini, che il Brasile fosse meno imitatore e più creativo. Anche in economia.

L’antropologo Eduardo Viveiros de Castro, in una intervista del 2012 per Outras Palavras, sintetizza bene questa prospettiva, in un momento in cui si sapeva già che questa opportunità stesse sfumando, quantomeno nel governo Lula:

 

“Comunque penso che si debba insistere nell’idea che il Brasile ha – o, a questo punto, avrebbe – le condizioni ecologiche, geografiche e culturali per sviluppare un nuoto stile di civiltà, uno che non sia una copia impoverita di un modello nordamericano o europeo. Potremmo cominciare a sperimentare, anche timidamente, una qualche alternativa ai paradigmi tecno-economici sviluppatisi nell’Europa moderna. Tuttavia immagino che, se qualche paese nel mondo riuscirà a realizzare ciò, questo sarà la Cina. È vero che i cinesi hanno alle loro spalle 5000 anni di storia culturale praticamente continua, e che quello che noi possiamo offrire sono appena 500 anni di dominazione europea ed una triste storia di etnocidi più o meno deliberati. Tuttavia, è ingiustificabile la scarsa capacità di inventiva della società brasiliana, quantomeno delle sue elite politiche e intellettuali, che hanno perso diverse occasioni di realizzare le soluzioni socio-culturali che i popoli brasiliani hanno storicamente offerto, e di articolare le condizioni di una civiltà brasiliana minimamente diversa dagli spot pubblicitari in TV.”

Lula, come sappiamo bene, adottò un modello di sviluppo che ignorava la più grande sfida di questo momento storico, i mutamenti climatici. E Dilma Rousseff si è mostrata una governante con un pensiero cementato nel ventesimo secolo, talvolta al diciannovesimo. Ma è nella produzione simbolica che appare chiaro come ancora si trattava di “vincere” nel campo altrui. O di essere riconosciuti “dai grandi” o “dagli adulti”.

 

Lula termina il suo secondo mandato festeggiato in Europa e negli Stati Uniti come colui che ha reso possibile l’inclusione di decine di milioni di brasiliani nel mondo del consumo. L’invenzione del Brasile era veramente interessante: tirare fuori le persone dalla povertà senza toccare la rendita dei più ricchi. Con questo miracolo made in Brazil, Lula non poteva che essere “il tipo giusto per Obama”. “This is my man, right there. I love this guy” (Questo si che è il mio uomo. Io lo adoro), disse il presidente americano nel 2009. “The most popular politician on Earth” (Il politico più popolare sulla faccia della terra).

 

Ciò che rimase coperto nel mezzo della festa era la “magica” obbedienza ad una ricetta vecchia: l’esportazione di materie prime, come il Brasile faceva dai primordi della sua storia. Si dimenticava anche di dire che questa “creazione” era fatta sulla distruzione dell’ambiente, come sempre è stato fin dal 1500. La novità non era dunque così nuova. E non appena l’incantesimo si è rotto, i più ricchi, ai quali il governo PT non ha toccato la rendita, si sono rivoltati contro Dilma Rousseff.

Due eventi

da mostrare al mondo

avrebbero provato che

l'eterno paese del futuro

era finalmente giunto

a un glorioso presente

Il destinatario della produzione di simboli si rivela nella scelta degli eventi che dovrebbero mostrare, in forma definitiva, che l’eterno paese del futuro era finalmente giunto a un glorioso presente. Due eventi internazionali, due eventi da mostrare al mondo: la coppa del mondo del 2014 e le olimpiadi del 2016.

 

C'è un soggetto confuso in questa narrativa. Un soggetto assoggettato. Quando si gioca nel campo dell’altro, secondo i termini dell’altro, si perde per 7 a 1. Le olimpiadi sono oscurate da una zanzara, nemico arcaico che però riflette vecchie magagne come la mancanza di infrastrutture igienico-sanitarie basiche. E la nuova ciclovia di Rio crolla uccidendo due persone nello stesso giorno in cui la torcia olimpica viene accesa in Grecia. La costruzione, tanto quella simbolica quanto quella concreta, non sta in piedi. Lost in translation.

Resterà sempre lost in translation fino a quando non si troverà un nome proprio. Fino a che il Brasile continuerà a insistere nell'essere scoperto quando invece ha bisogno di inventarsi. Questa realtà è lo scenario della straordinaria opera di Felipe Hirsch, "Os Ultraliricos: A Tragedia Latino-Americana", nella quale i blocchi sono costruiti per poi crollare ed essere risistemati per poi ridiventare rovine, e il tutto viene ricostruito ancora una volta per poi crollare di nuovo e di nuovo e di nuovo.

 

[ndt. a questo punto dell'articolo originale, Eliane Brum cita un brano dell'attore e scrittore Reinaldo Moraes, rilettura di un'opera di Pero Vaz de Caminha. Nel testo, scrive la Brum, "per fare una parodia del portoghese, il brasiliano invade la lingua dell'invasore". Lo riproponiamo senza traduzione, perché di difficile interpretazione al di fuori dei confini della lingua luso - brasiliana]

 

“Antão dizia eu que antes de alguém ter tempo de dizer chupa! já saltávamos aos cangotes daquelas fêmeas naturaes, feitos javalis resfolegantes de animalesco e represado d’sejo, e elas viram o que era bom pa tosse, pá. E às vezes que por qualquer razão já não queriam mais ter seus urifícios frequentados brutalmente pela nossa nobre gente, dávamos-lhes uns cascudos, mor d’elas calarem as matracas, e nelas mandávamos grosso fumo, pá, refodidas vezes, e era pimba na pombinha e peroba na peladinha! Aquilo era um vidão, pá”.

Creare ciò che può essere definito "in proprio nome" fu una delle sfide dei principali movimenti culturali del ventesimo secolo, dai modernisti del 22 al Cinema Nuovo eTropicalia (ndt. il movimento musicale tropicalista). Processi interrotti, non per coincidenza, dalla dittatura.

 

Nel 2013, il nuovo tornò a rioccupare le strade con enorme potenza, per essere poi represso dalle bombe di gas lacrimogeno della polizia militare e dalla violenza della parola “vandali”, usata dalla stampa conservatrice per mettere a tacere quello che non voleva ascoltare o che non era capace di interpretare.

 

È del 2013 che ancora si tratta e si tratterà per molto tempo. Di ciò che non può più essere contenuto e rivendica nuove parole da potersi dire. Non più come discorso, come nei movimenti modernisti, ma come frammenti, o come discorso contro discorso, nella nostra principale irruzione estetica post-moderna.

 

È del 2013 che ancora si tratta

e si tratterà per molto tempo.

E il 2013 rivendica nuove

parole da potersi dire

Il Brasile non è patria matria, ma fratria, come cantava Caetano Veloso (ndt. "...e io non ho patria, ho una matria e voglio una fratria", cantava Caetano Veloso nel 1984, nel brano “Língua” dell’album Vêlo). 

Per trovare le parole con cui costruiremo la narrativa odierna è necessario guardare a Oswald de Andrade, a Villa-Lobos, a Glauber Rocha, a Zé Celso Martinez Corrêa, a Davi Kopenawa e Ailton Krenak, a Mano Brown e Emicida, a Eliakin Rufino, a Sérgio Vaz, a Laerte, a Mundano.

A tanti. Al prospettivismo ameríndio di Eduardo Viveiros de Castro. Alla letteratura di Carolina Maria de Jesus. Alla Commissione per la  Verità. Quella sui crimini della dittatura e quella sui crimini della democrazia.

 

Al funk di quelle che non sono recatadas e comandano i loro propri lares (*). Per le famiglie che hanno due uomini e nessuna donna e quelle che hanno una donna e un'altra donna, per quelle che hanno tre patrigni e nessuna matrigna, per quelle di una donna sola. E per le donne che prima sono state uomini. Per quegli dei che si rifiutano di essere vittime di una truffa al microfono del parlamento.

 

*(ndt. il riferimento è a un titolo del settimanale Veja, rivista conservatrice e reazionaria molto diffusa - e contestata - in Brasile, relativo ad un'intervista a Marcela Temer, giovane moglie di Michel Temer, vice presidente della Repubblica, e probabile nuovo temporaneo presidente in caso di sospensione per impeachment di Dilma Rousseff. Il titolo in questione era "Bela, recatada e do lar", "Bella, riservata e di famiglia", implicita allusione a un ruolo femminile subalterno della futura "first lady". Dopo la pubblicazione di quell'articolo e per una settimana almeno, i social network sono stati invasi da migliaia di 'memes' in cui le donne sbeffeggiavano la visione maschilista (e golpista) di quel titolo)

 

Per rifondare il Brasile è necessario rendersi conto che le periferie sono il centro. Che la nostra capitale simbolica non è San Paolo, ma Altamira.

Inevitabile ricordare La Terra em Transe (1967), film di Glauber Rocha.

 

Il giornalista dice, dopo aver scoperto che le parole sono inutili:

“Non è possibile questa festa di bandiere, con la guerra e Cristo nella stessa posizione. Non è possibile la potenza della fede, non è possibile l’ingenuità della fede. (...) Non facciamo nostre la violenza, le idee, l'odio di quei barbari addormentati che siamo. Non facciamo nostro il nostro passato. (...) Non è possibile credere che tutto questo sia vero... Fino a quando sopporteremo, fino a quando sopporteremo al di là della fede e della speranza...

 

Il politico corrotto dice:

“Impareranno! Impareranno! Darò un nome a questa terra. Metterò in ordine queste isteriche tradizioni. Con la forza. Per l’amore della forza. In nome dell’armonia universale degli inferni arriveremo a una civiltà!

 

Che fare di fronte all’orrore? Riprendere la parola, quella che attraversa i muri. Affrontare la sfida di ricostruire una narrativa, necessariamente polifonica sul momento, in tutti gli spazi. Senza aggirare le contraddizioni, per evitare macchino la limpidezza del discorso. Al contrario. Abbracciandole, perché esse danno vita al discorso.

 

Il nome della cosa è la parola che dobbiamo trovare per inventare il Brasile.

Eliane Brum

Eliane Brum

 

è nata a Ijuí, nel sud del Brasile, nel 1966. Scrittrice, reporter e documentarista, vive ad Altamira, città amazzonica nella quale si è stabilmente trasferita nel 2017. Ha vinto moltissimi premi nazionali e internazionali di giornalismo ed è la reporter brasiliana più premiata della storia.

Nel 2021 è stata tra le vincitrici dell'antico e prestigioso Premio Cabot di giornalismo della Columbia University. In Brasile, nel 2019, con il suo libro “Brasil, Construtor de Ruínas: um olhar sobre o país, de Lula a Bolsonaro”, ha vinto il Premio Vladimir Herzog de Anistia e Direitos Humanos, che riconosce il lavoro di giornalisti, reporter fotografici e disegnatori che attraverso il loro lavoro quotidiano difendono la democrazia, la cittadinanza ed i diritti umani.

Collabora con El País e The Guardian. Ha pubblicato un romanzo, "Uma Duas" (2011), ed altri sette libri. Ad ottobre del 2021 ha pubblicato la sua ultima opera "Banzeiro òkòtó: Uma viagem à Amazônia Centro do Mundo". I suoi libri sono stati tradotti in diversi paesi. In Italia ha pubblicato “Le vite che nessuno vede” (Sellerio 2020) ed un suo testo in "Dignità! Nove scrittori per Medici senza Frontiere" (Feltrinelli 2011).

 

Site: elianebrum.com | Twitter, Instagram e Facebook: @brumelianebrum

 

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