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Writer's pictureEliane Brum

La campionessa olimpica Rebeca Andrade atterra nelle viscere del Brasile schiavista

Updated: Sep 7, 2021

Le élite bianche utilizzano di nuovo la narrativa della resilienza per riscattare un paese sommerso dalla violenza razziale e governato da un razzista dichiarato

di Eliane Brum*, El Pais 04.08.2021 (traduzione di Carlinho Utopia)


Rebeca(*) è bella e, oltre ad essere bella, Rebeca vola. Ha evocato il meglio del Brasile in un momento in cui esso espone tutte le sue viscere sulla pubblica piazza, a cominciare da Jair Bolsonaro, nato e cresciuto nell'intestino del paese che più lontano ha portato la schiavitù ed il genocidio continuato dei neri e dei popoli indigeni. Sono felice per Rebeca e per tutto ciò che rappresenta: una ragazza nera cresciuta in una favela da una madre single, che arriva a conquistare la medaglia olimpica al suono del funk brasiliano, malgrado avesse l'intera struttura di un paese contro di lei. E ha fatto tutto questo in un momento in cui il Brasile si vergogna di se stesso. È meraviglioso e abbiamo davvero tanto bisogno di bellezza. Ma provo fastidio per la narrativa della "resilienza" (ndt. "superazione" nel testo in portoghese) e per come la "gloria" di Rebeca possa essere usata, pur in molti casi con buone intenzioni, per coprire le viscere. O per nascondere che il Brasile continua ad essere molto più di personaggi simbolo della schiavitù come il bandeirante Borba Gato(**) piuttosto che di Rebeca. Mentre Rebeca volava come eccezione, la violenza dilagava nella senzala(***) che il Brasile non ha mai smesso di essere e sul cui suolo, con Jair Messias Bolsonaro, è aumentato lo spargimento di sangue.

(*) Rebeca Rodrigues de Andrade, ginnasta, nata a Guarulhos - San Paolo, 22 anni fa. Medaglia d'oro al volteggio e Medaglia d'argento all-around alle Olimpiadi di Tokyo 2020. (ndt.) (**) Manuel de Borba Gato (1649–1718), bandeirante. I bandeirantes erano bande di esploratori coloniali al servizio della corona portoghese e delle elite pauliste. Dedite a cacciare, schiavizzare e massacrare indigeni e schiavi neri fuggitivi, oltre che alla ricerca di giacimenti di minerali preziosi nelle allora inesplorate terre del centro del Brasile. Persone che hanno ucciso, stuprato e raso al suolo interi villaggi indigeni. (ndt.) (***) "Senzala": ai tempi del Brasile coloniale schiavista, gli schiavi chiamavano così lo spazio destinato al loro alloggiamento e "Casa Grande" la dimora padronale. (ndt.)


Non voglio in alcun modo sminuire il successo di Rebeca. Ha fatto un'enormità. E avere una ragazza nera della favela che fa enormità è un messaggio poderoso per le altre ragazze nere e un messaggio preciso per il Brasile schiavista. Ma la narrativa della resilienza è la sorellastra della narrativa della meritocrazia. Esalta l'individuo che avrebbe realizzato con il proprio sforzo personale un'impresa straordinaria, una sorta di miracolo individuale di un eroe, in questo caso eroina, che vince ogni avversità con una forza di volontà straordinaria. In più di 30 anni di giornalismo, non ho mai visto esseri umani così, nemmeno quelli considerati dei geni. È chiaro che ci sono meriti personali, ma questi si realizzano solo perché lungo il cammino ci sono state delle opportunità. Certamente un profilo all'altezza della sua vita, della sua famiglia e del suo paese mostrerà le opportunità e gli incontri decisivi che Rebecca ha avuto nella sua vita e contestualizzerà il suo successo nel campo del collettivo e della condivisione, della comunità e degli (scarsi) programmi dei governi.


Ciò che voglio dire è che non credo nella resilienza, credo nelle politiche pubbliche . Ogni volta che si loda l'individuo in quanto prodotto di se stesso, si esalta il capitalismo, che produce una disuguaglianza così abissale da negare alla maggior parte delle ragazze nere persino la possibilità di avere un'alimentazione sana. La narrazione della resilienza commette anche un'ulteriore violenza contro chi già ne ha subita tanta: la violenza verso quelle di cui si dice che avrebbero potuto essere Rebeca se si fossero sforzate di più; la violenza verso quelle madri single che lottano per mantenere se stesse ed i loro figli, sfruttate e umiliate in ogni maniera, di cui si dice che avrebbero potuto anche loro "produrre" Rebecche se solo si fossero dedicate di più. Anche per Rebeca e per tutto ciò che rappresenta - perché lo rappresenta - questa narrazione ripetuta più e più volte in nome del bene, deve essere abbattuta come le statue degli assassini. Non dobbiamo usare Rebeca contro tutte le Rebecche. Nemmeno quando abbiamo così tanto bisogno di buone notizie e riscatto.


L'attivista Paulo Roberto da Silva Lima noto come "Galo"
L'attivista Paulo Roberto da Silva Lima noto come "Galo" | foto: Scarlett Rocha

E allora diventa inevitabile parlare della statua di Borba Gato. Appena pochi giorni prima del salto di Rebeca, Paulo Lima, noto come Galo (ndt. gallo), e altri attivisti hanno dato fuoco alla statua del bandeirante Borba Gato, a San Paolo. Hanno compiuto questo gesto in nome della “Rivoluzione periferica”, due parole che messe insieme spaventano moltissimo la minoranza più ricca del Brasile. Galo è il leader più interessante emerso negli ultimi anni nel Brasile urbano del centro-sud. Organizzatore del movimento dei riders antifascisti, “nero e povero”, Galo rappresenta i più sfruttati tra gli sfruttati del capitalismo contemporaneo, che hanno assunto un particolare protagonismo nel momento in cui hanno fatto da ponte tra coloro che, durante la pandemia, potevano lavorare da casa e supermercati, negozi, farmacie, ristoranti, ecc., percorrendo da un capo all'altro le città ed avventurandosi nelle strade e nei viali contagiati dal covid-19 come un esercito di schiavi di un mondo distopico. Sono anche quelli che attraversano il presunto riscatto tecnologico delle app e mostrano che altro non è se non una nuova fase dello sfruttamento dei corpi dei lavoratori. Oltre a tutti i contenuti politici del movimento, questo gruppo di riders è schierato frontalmente contro il fascismo in Brasile.


La ripercussione dell'incendio della statua di Borba Gato ha rivelato tutto il conservatorismo delle élite brasiliane, anche degli intellettuali. E in molti modi, dal più esplicito al più sottile. Dichiararsi antirazzista sì, ma dare fuoco a una statua, anche se questa rende omaggio, nella figura di Borba Gato, ai bandeirantes che distrussero, schiavizzarono e uccisero neri e indigeni dal XVI secolo in poi, questo no. No perché è ​​arte, no perché sarebbe lo stesso che negare la storia, no perché si suppone che metterebbe a rischio le persone e tutti questi argomenti sono stati elegantemente messi in fila. No perché tutto questo avrebbe bisogno di essere discusso pubblicamente, come se vari gruppi e parlamentari non ci provassero da anni, senza successo. No per i più svariati motivi. E poi, come sempre, c'è stato chi ha sostenuto che gli attivisti non capiscono niente di storia perché Borba Gato, in fondo, non sarebbe stato nemmeno così cattivo. L'ultimo argomento ad essere lanciato come una pietra è sempre quello dell'ignoranza dei protagonisti, che hanno osato agire senza chiedere il permesso o il consiglio a chi davvero conosce la storia, quella con la “S” maiuscola.


La statua di Borba Gato in fiamme | foto: Lucas Martins - Jornalistas Livres
La statua di Borba Gato in fiamme | foto: Lucas Martins - Jornalistas Livres

Lo sconcerto non dovrebbe essere causato dall'atto di bruciare la statua di Borba Gato, ma dal fatto che, dopo tutto, stia ancora lì. Prima di proseguire, devo dire qualcosa sul fuoco. In Amazzonia, il fuoco è uno strumento dei distruttori. Il fuoco criminale brucia la foresta, ha incenerito gran parte del Pantanal, ha incendiato le case e le isole delle popolazioni fluviali espulse dalla centrale idroelettrica di Belo Monte e, in questo momento, incendia le case dei leader indigeni e contadini, appiccato dalle milizie armate dei grileiros (ndt. accaparratori di terre, land grabbers), base di sostegno di Bolsonaro nella foresta. Non ci piace l'incendio che ha bruciato il Museo della Lingua Portoghese (ora finalmente riaperto) né l'incendio che ha bruciato il Museo Nazionale né il fuoco che ha appena bruciato la Cinemateca di São Paulo, questi si incendi criminali, beni pubblici lasciati bruciare. Non ci piace il fuoco, ma non sarò io a dire come devono lottare quelli che hanno la storia incisa con il ferro — e il fuoco — sui loro corpi. Quello che voglio dire è che, in Amazzonia, sappiamo benissimo che, nel fuoco contro fuoco, è sempre la stessa parte a finire bruciata, perché in Brasile la materia morta delle statue vale più della carne viva dei neri e degli indigeni.


Questo è un altro nodo della questione. Borba Gato ha preso fuoco, ma a bruciare è stato Galo. Si è assunto la paternità dell'atto ed è stato arrestato. Sua moglie, che era in casa al momento della manifestazione politica, è stata arrestata e solo successivamente rilasciata. La prigione è ora una violenza in più sul suo corpo nero. Al momento della pubblicazione di questo testo, Galo è ancora in prigione. Il clamore per il rilascio di Galo è molto minore di quanto dovrebbe essere perché la maggior parte di quelli che sono abituati a dichiararsi antirazzisti vogliono che chi lotta lo faccia con le buone maniere. Bruciare le statue sarebbe di cattivo gusto perché, in qualche strato del subconscio, chi ha privilegi ha paura di fin dove può arrivare il fuoco. Quindi, per favore, discutiamo di tutto questo attorno a un tavolo mentre tu continui a rischiare il tuo corpo e io ti ricompenso con una buona mancia.


Anche sul fronte opposto c'è un problema. Come posso dire a Galo quanto sia stato straordinario il suo gesto se non è il mio corpo ad essere messo a rischio, ma il suo. Penso che sia necessario fare attenzione quando chi viene arrestato è l'altro. Se devo dirgli che sì, ha fatto un gesto storico, devo essere disposta a mettere il mio corpo accanto al suo, a condividere con lui la prigione. E il punto è che, essendo bianca e di classe media, non accadrà mai. O comunque mai come succede a lui. Il mio rischio è infinitamente inferiore a quello di Galo. Quindi non basta battergli le mani. Se vogliamo davvero schierarci con Galo nella lotta contro i Borba Gato contemporanei, in uno stato, quello di São Paulo, in cui la sede del governo si chiama Palácio dos Bandeirantes (ndt. Palazzo dei Bandeirantes), dobbiamo essere disposti a pagare il prezzo per proteggerlo dalle arbitrarietà a venire. Quello che voglio dire è che non puoi ribellarti con il corpo degli altri.


Il giorno prima che Rebeca Andrade vincesse la prima medaglia d'argento olimpica della ginnastica artistica brasiliana è nata Suzi, una bambina anche lei nera. È stata strappata dal seno di sua madre nera non appena è uscita dall'utero, all'ospedale universitario, a Florianópolis, perché il Consiglio Tutelare ha deciso che Andrielle Amanda dos Santos non è in grado di allevarla. Adrielle ha solo un anno meno di Rebeca, ha vissuto per strada e fatto uso di droghe, ha perso una figlia neonata e ha perso la tutela di altre due. Secondo un rapporto del portale Catarinas, è stata umiliata durante il parto e le è stato impedito di continuare ad allattare Suzi, che andrà in un istituto. Quando ha cercato di vederla, le hanno detto che le visite erano proibite. Anche ai nonni paterni è stato impedito di registrare il bambino. “Nella senzala ci portavano via i nostri figli. Da lì in poi, i nostri seni, pieni di latte, sono stati romanzati, e guarda, ci hanno chiamato madri da latte, madri nere, nonostante i nostri figli ancestrali fossero stati venduti, rapiti", ha scritto sui suoi social l'insegnante e intellettuale Jeruse Romão. La rimozione della figlia dalle braccia della madre è considerata dai movimenti sociali che sostengono Andrielle come un sequestro da parte dello Stato basato sul razzismo istituzionale.


La domenica in cui Rebeca ha fatto il salto che l'ha portata sul gradino più alto del podio olimpico, Galo stava in prigione per aver bruciato una statua che celebra la schiavitù e lo sterminio dei corpi degli antenati di Rebeca, una statua che celebra l'avanzata sulla natura in cerca di ricchezze come l'oro della sua medaglia. Una statua che continua a stare là. Suzi e Andrielle erano state separate, la figlia nera amputata dalla madre nera come ai tempi della senzala. Invece di politiche pubbliche per sostenere la madre in difficoltà, sequestro istituzionale. Sì, il salto di Rebeca è stato bello e ricco di significato, ma non c'è nessuna resilienza. Il Brasile continua a schiacciare gli stessi corpi, a bruciare gli stessi corpi, ad attraversare con le pallottole gli stessi corpi. Non sviliamo Rebeca e il suo salto forgiando una mistificazione redentrice che è solo questo, una mistificazione. Per ogni Rebecca che salta, ce ne sono altri milioni afferrate per le gambe in modo che non possano saltare e violentate in tutte le maniere, anche quando danno alla luce le loro figlie nere.


La statua di Borba Gato non sta lì per caso. Continua a rimanerci perché rappresenta. A stare in carcere non sono i suoi successori contemporanei, ma quelli che, per legittima difesa, hanno reagito a tutto ciò che i bandeirantes e la loro glorificazione rappresentano. A stare in carcere sono quelli che da sempre ci sono stati. A morire, quelli che da sempre sono stati assassinati. Borba Gato è più vivo che mai e la sua brutta copia oggi è presidente del Brasile. Se Rebeca è riuscita a fare quel salto è perché rappresenta secoli di resistenza contro ogni forma di morte promossa e sostenuta dallo Stato brasiliano e dalle sue élite. Non c'è redenzione. Non c'è resilienza. Non c'è meritocrazia. C'è la lotta. C'è il lutto. E il lutto ha il colore di Rebeca.


*Eliane Brum è nata a Ijuí, nel sud del Brasile, nel 1966. Scrittrice, reporter e documentarista si occupa in particolare di Amazzonia e di periferie urbane. Collabora con El País e The Guardian e i suoi articoli appaiono anche sulla rivista Internazionale. Ha pubblicato un romanzo, Uma Duas (2011), e varie raccolte di interviste e reportage, tra cui “Brasil, Construtor de Ruínas: um olhar sobre o país, de Lula a Bolsonaro” (Arquipélago). In Italia ha pubblicato “Le vite che nessuno vede” (Sellerio 2020) ed un suo testo in "Dignità! Nove scrittori per Medici senza Frontiere (Feltrinelli 2011). Ha vinto moltissimi premi nazionali e internazionali di giornalismo. “Le vite che nessuno vede” è stato selezionato per il National Book Award 2019 ed è stata tradotta in numerosi paesi.

Email: elianebrum.coluna@gmail.com

Twitter, Instagram e Facebook: @brumelianebrum


Oltre che su questo blog, altri articoli di Eliane Brum tradotti in italiano sono presenti sul sito Il Resto del Carlinho Utopia, qui

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