È con corpi che si rifiutano di essere violentati o di violentare che possiamo creare un altro modo di essere e stare al mondo di Eliane Brum*, El Pais* 29.09.18 (traduzione di Patrizia Giancotti)
Ci ho messo un bel po’ di tempo a capire che la violenza legata all’avere un corpo sempre a rischio non era semplicemente un dato in più nella traiettoria della mia vita. Non era un trauma o una storia triste, o vari traumi o varie storie tristi. La violenza è parte costituente del nostro essere donna, come lo sono le nostra ossa, gli organi, il sangue. La violenza è strutturale nel nostro essere e stare al mondo. Capiamo ciò che siamo dalla minaccia ai nostri corpi. Essere donna è essere un corpo che non si sente sicuro in nessun posto. Se ognuna di noi pensasse con coraggiosa onestà, scopriremmo che la maggior parte delle nostre decisioni passa dall’interazione col nostro corpo, da come lo poniamo, da come lo vedono gli altri. E principalmente da come proteggerlo. Dagli occhi, dalle mani, dai coltelli, dai membri maschili che non autorizziamo a entrare. Essere donna è essere una Palestinese. Se è lo sguardo dell’altro che ci forgia, ci scopriamo donne prima di scoprirci donne, prima ancora di poter pronunciare la parola donna, ci scopriamo donne attraverso lo sguardo che ci invade. Non quello che ci ama, ma quello che ci giudica. Non quello che ci riconosce, ma quello che ci trasforma in oggetto. Non quello che chiede il permesso, ma quello che viola. Se è lo sguardo dell’altro a dirci chi siamo, ancor prima di capire il significato della parola paura, già la conosciamo. Essere donna è essere un’isola del fiume Xingu distrutta dalla diga di Belo Monte. È con questo corpo a rischio di violenza, che andiamo per le strade, difendendoci dagli sguardi e dalle mani. Che entriamo negli autobus e in metro, difendendoci dagli sguardi e dalle mani, a volte dal sesso dei maschi. Che temiamo professori maschi, medici maschi, capi maschi. Che temiamo a volte zii e cugini. Che temiamo i patrigni e a volte i padri. Che temiamo l’uomo che vende caramelle. Che temiamo l’uomo che ci siede di fianco al cinema. Che temiamo i compagni di scuola e più tardi quelli di facoltà. Che temiamo i colleghi. Che temiamo. E temiamo. Essere donna è essere il villaggio di Mariana divenuto fango. Noi che chiudiamo le gambe quando ci sediamo perché la nostra vagina dev’essere nascosta, sebbene sia un mistero molto più dentro che fuori. Un meraviglioso mistero messo a tacere, proprio noi che abbiamo piccole e grandi labbra e una lingua eretta proprio al centro del nostro sesso, stiamo zitte. E zitte siamo quando le nostre vagine e i nostri culi e le nostre bocche sono violate. Essere donna è essere una parola che non può essere pronunciata, è una foto censurata su facebook. Perché ci hanno insegnato che è nostra responsabilità sapere dove e come mettere il nostro corpo, sapere come vestirlo, perché ci hanno insegnato che è nostra responsabilità scappare da peni, mani e coltelli. E perché è nostra responsabilità scappare dalla violenza del macho che non può resistere alla sua natura di invadere, perforare e attraversare, siamo colpevoli. D’aver scelto il posto sbagliato, l’ora sbagliata, i vestiti sbagliati, il tipo sbagliato. Siamo colpevoli di sanguinare e di soffrire e di voler morire piuttosto che essere invasa, attraversata, perforata. Essere donna è essere stuprata da trenta uomini a Rio de Janeiro. Essere donna è anche essere stuprata trenta volte nel corso di una vita da un marito o un fidanzato o un uomo ad una festa. Trasformarsi da ragazzina a donna è una storia che può essere narrata dalla mani sulle nostre fighe, dai peni che ci mostrano per strada (o in casa), dalle battute nauseanti a scuola e al lavoro, dalle frasi buttate contro i nostri corpi che provano a passare, dalle parole zoccola, puttana, troia. Zoccola, puttana, troia. Mille volte. Zoccola, puttana, troia. Trasformarsi da ragazzina a donna è un racconto narrato dalla paura, paura, paura. È sapere che il seno che cresce sarà violato ancor prima di esser cresciuto e che la vagina che matura sarà toccata senza permesso. E sguardo. Sguardo senz’amore. Essere donna è aver la testa distrutta a colpi di pistola per aver osato sfidare il potere. È essere Marielle Franco, Dorothy Stang, Luana. Quando non è il nostro corpo a essere abusato, tagliano e mutilano la nostra espressione con parole che sono lame affilate. Loro tagliano e mutilano le nostre parole con le loro penne e le loro dita. Tagliano e mutilano le nostre performance con il loro urlare “bona”. Chiamano la nostra letteratura e la nostra arte “femminile” perché possiamo esistere solo confinate in un ruolo. Interrompono i nostri discorsi, completano le nostre frasi perché non siamo in grado di arrivare alla fine da sole. E quando reagiamo ci chiamano troie e pazze. Puttane e isteriche. “mal scopate” perché credono sia il loro cazzo a mancarci. Essere donna è essere mutilata anche senza sangue e senza segno. Essere donna è essere parola assente, lettera cancellata con un click della tastiera. Dicono che neanche i criminali perdonino lo stupro, e per questo stuprano gli stupratori, come se ci fosse una qualche forma di giustizia nel mettere un pene nel culo di chi non vuole essere scopato, perpetrando un’altra violenza e godendone. Ma molti di questi uomini che in teoria non perdonano lo stupro, violano le loro donne a letto, picchiano le figlie, controllano le vagine che considerano loro con mille occhi. E quando sono in carcere delegano a chi sta fuori questo compito, mentre le loro madri hanno trascorso decadi con vagine e ani rivoltati all’ingresso delle prigioni. Essere donna è diventare blu per gli shock elettrici su seni e vagina per ordine di Carlos Alberto Brilhante Ustra e dopo vederlo entrare con i tuoi figli di 4 e 5 anni per vederti nuda, sporca di urina e di vomito. Essere donna è essere AmelinhaTeles. In questo Brasile di sangue generazioni di uomini hanno ritenuto di diventare uomini violentando le cameriere, come i loro padri e i loro nonni già facevano. E così lo sono diventati. E questo fanno tutt’ora, con donne terrorizzate, la maggior parte nere, senza alcuna chance di denunciare o nemmeno di gridare. Donne sottomesse alla logica che la loro carne sia per uso (e abuso). Questa modalità da Casa Grande e Senzala che non è mai stata considerata stupro, perché la cameriera era una schiava che non avrebbe mai riconquistato la sua libertà. (ndr. "Casa Grande": ai tempi del Brasile coloniale schiavista, gli schiavi chiamavano così la dimora padronale, mentre lo spazio riservato ai loro alloggiamenti era chiamato "Senzala") Essere donna è sentire che il tuo stupro è definito come “tratto culturale”. È gridare con un fazzoletto in bocca nel cubicolo che chiamano stanza della cameriera. Perché #LuiNo? Perché vogliamo che la violenza smetta di determinare l’esperienza dell’esser donna, perché vogliamo che la violenza abbandoni le nostra ossa. Perché non vogliamo un presidente che dica “Non ti stupro perché sei molto brutta”. Non vogliamo un presidente che dica che i suoi figli non stanno con ragazze nere perché sono stati “molto ben educati”. Non vogliamo un presidente che sostenga che le donne devono guadagnare meno perché rimangono incinta. Perché non vogliamo un presidente che dica di preferire che suo figlio muoia in un incidente piuttosto che sia omosessuale. Non vogliamo un presidente che dica che i neri quilombolas non valgono neanche come “procreatori” (ndr. Quilombolas: sono gli integranti di comunità chiamate Quilombos, formate da schiavi africani fuggiti dalle piantagioni in cui erano prigionieri nel Brasile all'epoca della schiavitù. Attualmente si contano oltre 1500 comunità quilombolas presenti in varie aree del paese). Non vogliamo un presidente che difenda la tortura. Non vogliamo un presidente che abbia come eroe Carlos Alberto Brilhante Ustra. Non vogliamo un presidente che sostenga che la soluzione per la violenza che lui e i suoi hanno contribuito a creare sia armare la popolazione. Non vogliamo un presidente che difenda l’odio. Perché #LuiNo? Perché non vogliamo che le nostre nipoti vivano in un paese governato da un uomo che fa con la mano il gesto di sparare. Non vogliamo che vivano sotto il governo di un uomo che dice che le donne nascono per “una debolezza” del maschio. Perché non vogliamo che le donne che nascono ora debbano vivere con la paura con cui noi e le nostre figlie viviamo. Di uomini che usano i loro sessi come armi e le armi come i loro sessi. Perché non vogliamo che le donne continuino a esser vittime. E votare per lui significherebbe proprio schiacciare nuovamente il pulsante “vittima”. Perché essere donna è anche essere un corpo ribelle. È essere un corpo che lotta contro l’oppressione, da millenni. Anche col rischio di esser bruciato dagli inquisitori. Perché essere donna è avere come riferimento passato grandi donne che hanno lottato per la libertà e ci hanno portato fin qui, facendo del nostro corpo ribellione. Perché esser donna è aver partecipato alla “Marcia delle puttane”, è aver urlato “Il nostro corpo e le nostre regole” in strada, è continuare ad affermare “Marielle presente”. È aver partecipato a “Primo Assedio”. È essere #metoo. Essere donna è dire che “lutto” è un verbo (ndr. in portoghese la parola lutto e la prima persona del verbo lottare si scrivono nello stesso modo). Lotteremo. Perché questa lunga notte deve finire, e siamo noi a dover sbarrare il cammino alla violenza portando i nostri corpi per strada. Noi, unite agli uomini che, come noi, inventano un corpo che non si struttura attorno all’atto del violentare. Corpi desideranti che si uniscono nella lotta per recuperare la possibilità di stare insieme senza violenza. Il Brasile deve smettere di costruire rovine, il Brasile non può più essere un corpo in rovina. È con corpi che rifiutano di essere determinati dall’esser violentati o dall’atto di violentare che possiamo creare un altro modo di essere e stare al mondo. Perché #LuiNo? Perché #NoiSi.
*Eliane Brum è nata a Ijuí, nel sud del Brasile, nel 1966. Scrittrice, reporter e documentarista si occupa in particolare di Amazzonia e di periferie urbane. Collabora con El País e The Guardian e i suoi articoli appaiono anche sulla rivista Internazionale. Ha pubblicato un romanzo, Uma Duas (2011), e varie raccolte di interviste e reportage, tra cui “Brasil, Construtor de Ruínas: um olhar sobre o país, de Lula a Bolsonaro” (Arquipélago). In Italia ha pubblicato “Le vite che nessuno vede” (Sellerio 2020) ed un suo testo in "Dignità! Nove scrittori per Medici senza Frontiere (Feltrinelli 2011). Ha vinto moltissimi premi nazionali e internazionali di giornalismo. “Le vite che nessuno vede” è stato selezionato per il National Book Award 2019 ed è stata tradotta in numerosi paesi.
Site: elianebrum.com
Email: elianebrum.coluna@gmail.com
Twitter, Instagram e Facebook: @brumelianebrum
Oltre che su questo blog, altri articoli di Eliane Brum tradotti in italiano sono presenti sul sito Il Resto del Carlinho Utopia, qui
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