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Eliane Brum
Anti Auto-Aiuto 2015 di Eliane Brum

30.03.15

ANTI AUTO-AIUTO PER IL 2015

di Eliane Brum*, pubblicato su El Pais il 22/12/2014

traduzione a cura di Clelia Pinto e Carlinho Utopia

 

In difesa del malessere per salvarci da una vita morta e da un pianeta ostile.

È ora di smettere di vivere in “modalità aereo”.

Non sono sicura che quest'anno finirà. Ho la crescente convinzione che gli anni non finiscano più.

Non c'è più quella zona di transizione e quel cambio di calendario, così come delle agende, è solo un'altra convenzione che, semmai un giorno ha avuto un senso, si rimette in scena adesso come gesto svuotato. Meno come celebrazione di un nuovo patto con la vita, individuale e collettivo, più come farsa. E forse, almeno in Brasile, potremmo già affermare che il 2013 non ha avuto inizio a gennaio, ma nel mese di giugno, insieme alle manifestazioni, e continua fino ad oggi. Ma questo è argomento per un altro articolo, ancora da scrivere. 

 

Quello che qui mi interessa è che i nostri rituali di fine ed inizio anno, suonano sempre più falsi, e non solo perché da molto tempo il mercato se n'è appropriato. C'è qualcosa di più grande, meno facile da percepire, ma non per questo meno dolorosamente presente. Qualcosa che abbiamo presentito, ma abbiamo avuto difficoltà di nominare. Qualcosa che ci spaventa o, quanto meno, spaventa molti. E spaventandoci, invece di svegliarci, ci anestetizza. Forse, per un'epoca in cui gli anni sono così veloci da non finire mai, è più indicato non fare liste di buoni propositi per il nuovo anno o manuali sul come essere felici e di successo, ma di "anti-autoaiuto".

 

Quando le persone dicono che si sentono male, che è sempre più difficile per loro alzarsi dal letto la mattina, che trascorrono la giornata arrabbiate o con la voglia di piangere, che soffrono di ansia e che la notte hanno difficoltà di dormire, non mi sembra che siano malate o esprimano un qualche tipo di anomalia. Al contrario. In questo mondo, sentirsi male può essere un chiaro segnale di eccellente salute mentale. Chi è felice e saltellante come una capretta dei cartoni animati è probabile invece che abbia seri problemi. È per loro che si dovrebbe sentire il suono di una sirena e per loro che gli psichiatri con la mania dei farmaci dovrebbero mobilitarsi, non sparando pillole, ma "ginocchiate" come quelle dell'Analista de Bagé, del tipo "svegliati e datti una regolata". (ndt. L'analista de Bagé è un personaggio umoristico creato dallo scrittore brasiliano Luis Fernando Verissimo negli anni 80. Si tratta di uno psicoanalista sui generis, la cui tecnica del "joelhaço", cioè delle ginocchiate, è basata sulla teoria del "dolore più forte". Quando i suoi pazienti si lamentano dei loro malesseri interiori, l'analista piazza loro una ginocchiata "nel posto giusto", così da provocare l'esperienza di un dolore tanto intenso da fargli dimenticare i mali minori.) È necessario disconnettersi totalmente dalla realtà per non essere travolti da questo mondo che abbiamo contribuito a creare e che ci violenta. Non credo che i felici e saltellanti siano più reali di Babbo Natale e tutte le sue renne, ma, se esistessero, sarebbero loro gli alienati mentali del nostro tempo.

 

Mi guardo intorno e non tutti, ma quasi, fanno uso di qualche tipo di psicofarmaco. Per dormire, per svegliarsi, per essere meno ansiosi, per piangere di meno, per riuscire a lavorare, per essere "produttivo". “Riuscire a farcela” è una espressione comune. Ma sarà che dobbiamo riuscire a fare ciò che non è possibile fare? Sarà che siamo obbligati a sottometterci a una vita che ci sfugge e a una logica che ci rende oggetti perché ci lasciamo rendere oggetti? Sarà che il non riuscire a farcela è esattamente ciò che deve essere ascoltato, è la nostra parte ancora viva che urla che c'è qualcosa di molto sbagliato nel nostro quotidiano di zombie? E che è necessario rompere e non adeguarsi a un tempo sempre più veloce e ad una vita non-umana, in cui ci trasciniamo con i nostri occhi morti, consumando pillole che regolano l'umore ed ingoiando diagnosi di patologie sempre più stravaganti?

E consumando ed ingoiando prodotti e immagini, prodotti e immagini, prodotti e immagini?

In questo mondo,

sentirsi male è

sinonimo di

eccellente

salute mentale

La risposta non è data. Se lo fosse, non sarebbe una risposta ma un dogma. Ma se la risposta è una costruzione di ognuno, forse in questo momento sarebbe collettiva, nella misura in cui pare essere un fenomeno di massa. O, per quelli che misurano tutto in termini medici, uno sei segni del nostro tempo, saremmo di fronte a una pandemia di malessere. Voglio, qui, difendere il malessere. Non come se si trattasse di un virus, un alieno, un qualcosa che non dovrebbe trovarsi lì, e pertanto obbligatoriamente da eliminare. Difendo il malessere - il tuo, il mio, il nostro - come quel che ci mantiene vivi sin dai tempi delle caverne e che ha fatto dell’homo sapiens una specie altamente adattabile - sebbene distruttiva e, negli ultimi secoli, anche autodistruttiva. È il malessere che ci dice che qualcosa è sbagliato e che bisogna muoversi. Non come gesto facile, un precetto da manuale d’auto-aiuto, ma come un cambio di posizione, il che costa, richiede tempo ed esige i nostri maggiori sforzi. Esige che al mattino non ci si alzi soltanto, ma che ci si svegli.

 

Anni fa avrei scritto, come ho fatto un paio di volte, che il malessere dei nostri tempi, che mi sembra diverso dal malessere di altre epoche storiche, è dato da varie ragioni legate alla modernità ed alle sua creazioni concrete e simboliche. È dato anche dalle sue illusioni di potenza e fantasie di superamento dei limiti. Ma soprattutto dal nostro ridurci da persone a consumatori, dalla sottomissione dei nostri corpi - e anime - al mercato e alla dannazione di vivere in un tempo troppo veloce.

 

A proposito di questa particolarità, la psicoanalista Maria Rita Kehl ha scritto un libro molto interessante chiamato O Tempo e o Cão (Il tempo e il cane - ed. Boitempo), nel quale riflette in maniera originale su ciò che le depressioni esprimono riguardo al nostro mondo, anche come sintomo sociale. All'inizio, racconta l'esperienza personale dell'investimento di un cane sulla strada - e l'esperienza qui non è una scelta casuale di parola. Kehl vide il cane, ma la velocità a cui andava le impediva di frenare o di evitarlo del tutto. Riuscì appena a non ucciderlo. Ben presto l’animale, che zoppicava lungo il bordo della strada, è rimasto indietro, nello specchietto retrovisore. È questo ciò che succede alle nostre esperienze alla velocità dettata da quest’epoca in cui il tempo è diventato denaro - una brutalità che abbiamo permesso, riprodotto e con la quale siamo scesi a patti, senza capire quanta morte c’è in questa conversione.

Sull’accelerazione la psicoanalista dice: “Ci rendiamo appena conto della banale velocità della vita, finché qualche brutto incontro non arrivi a rivelarcene la faccia mortifera. Mortifera non solo contro la vita del corpo, in casi estremi, ma anche contro l’innegoziabile delicatezza della vita psichica. (...) Questo dimenticarsi (del cane) si sommerebbe all’appagamento di migliaia di altre percezioni istantanee alle quali noi ci limitiamo a reagire rapidamente per dimenticarle in seguito con la stessa rapidità. Di quel brutto incontro, che potrebbe aver messo fine alla vita di quel cane, è rimasta solo una piccola macchia scura sul mio paraurti. L’incidente mi ha fatto riflettere sulla relazione tra le depressioni e l’esperienza del tempo, che nella contemporaneità, si riassume praticamente  con l’esperienza della velocità."

Difendo il malessere come quel che ci mantiene vivi sin dai tempi delle caverne

Che succede con le macchie scure, con il sangue lasciato alle nostre spalle, dentro e fuori di noi?

Non sono loro che ci perseguitano nelle notti in cui ansimiamo prima di ingoiare una compressa? Come vivere umanamente in un tempo non umano?

E come accettare di sottomettersi alla bestialità di una vita non viva?

 

Oggi mi sembra che qualcosa di nuovo si imponga, intimamente relazionato a tutto questo, ma che comporti una grande concretezza e un senso di urgenza esponenziale rispetto a tutte le questioni dell’esistenza. E, almeno in questo senso, qualcosa di affascinante.

Il cambiamento climatico, un fatto ancora molto più chiaro nella mente degli scienziati e degli ambientalisti che nella società in generale è questo qualcosa. L’evidenza che quel che rappresenta probabilmente la maggior sfida di tutta la storia dell’umanità ancora non sia diventata la preoccupazione maggiore di quel che si definisce il “comune cittadino” non dimostra la sua insignificanza nella vita quotidiana, ma una prova della sua enormità, nella vita quotidiana. È così grande che diventiamo ciechi e sordi.

Come sottometterci

a vivere un tempo accelerato e non umano?

In una recente intervista, “Diálogos sobre o fim do mundo”, l’antropologo Eduardo Viveiros de Castro evoca il pensatore tedesco Günther Anders (1902-1992) per spiegare quest’alienazione.

 

Anders affermava che la bomba atomica era la prova che qualcosa era successo all’umanità nel momento in cui si era rivelata incapace di immaginare gli effetti di quel che era diventata capace di fare. Riporto qui un brano dell’intervista: “È una situazione anti-utopica. Chi è un utopista? Un utopista è una persona in grado di immaginare un mondo migliore, ma non riesce a farlo, non ne conosce i mezzi, non sa come. E noi stiamo diventando il contrario. Noi siamo tecnicamente in grado di fare cose che non siamo capaci neppure di immaginare. Sappiamo costruire la bomba atomica ma non sappiamo pensare alla bomba atomica. Günther Anders usa un’immagine interessante, quella secondo cui esiste questa idea nella biologia della percezione di fenomeni subliminali, al di sotto della linea di percezione.

C’è quella cosa così piccola, che senti ma non sai di aver sentito; che vedi, ma non sai di aver visto; come piccole differenze di colore. Sono fenomeni letteralmente subliminali, al di sotto del limite della tua percezione. Noi, a suo dire, staremmo creando un’altra cosa ancora, che non esisteva, il superliminale. Ovvero, è così grande che non riesci né a vederla né a immaginarla. La crisi climatica è una di queste cose. Come puoi immaginare un qualcosa che dipende da migliaia di parametri, che è un transatlantico in viaggio e che ha una massa inerte gigantesca? Le persone restano paralizzate, dà una specie di paralisi cognitiva."

 

Il fatto di alienarsi - o anche, come fanno alcuni, di chiamare quelli che indicano l’ovvio “eco-scocciatori”, brutta battuta e ormai anche vecchia - non impedisce né la corrosione accelerata del pianeta né quella della vita quotidiana e interiore di ognuno.

Quel che voglio dire è che, come tutti i nostri gridi esistenziali, il fatto di negarli non impedisce che facciano danni dentro di noi. Credo che il malessere attuale - forse un nuovo malessere della civiltà - è oggi visceralmente legato a quel che succede al pianeta. E che nessuna investigazione dell’animo umano in questo momento storico, in qualsiasi campo della conoscenza, può prescindere dall’analisi degli impatti del cambiamento climatico in corso.

 

In qualche modo, nell’accezione popolare del termine “clima”, riferito allo stato di spirito di un gruppo o di una persona, c’è anche un “cambiamento climatico”. Anche se la maggioranza non riesce a nominare il malessere, sospetto che la bestia senza nome apra i suoi occhi dentro di noi nelle notti scure, come gli altri incubi che abbiamo solo da svegli. C’è quest'animale che ancora ci abita che presagisce, anche se ha paura di sentirla a livello più cosciente e continua a spingere quel che dentro lo spaventa, in uno sforzo quasi commovente di ignoranza e anestesia. E la maggior prova, di nuovo, è l’enormità della negazione, anche a causa del doping da droghe comprate in farmacia e “autorizzate” dal medico, la grande autorità di questo curioso momento in cui si inverte quel che è malattia.

São Paulo è, in Brasile, la vetrina più impressionante di questa monumentale alienazione.

La più grande città del paese sta diventando da anni, decadi, uno scenario di distopia in cui le persone evolvono lentamente tra auto e inquinamento, schiacciate e di volta in volta più violente nei più piccoli atti del quotidiano.

Nell’ultimo anno, la siccità e la crisi idrica hanno accentuato e accelerato la corrosione della vita, ma non per questo il cambiamento climatico e tutte le questioni socio-ambientali a esso collegate hanno avuto il minimo impatto e il minimo rilievo nelle elezioni statali  e principalmente in quelle presidenziali. Nulla.

La maggioranza, governanti inclusi, non sembra neanche capire che la catastrofe paulista, che colpisce la capitale e varie città dell’interno, è legata anche alla devastazione dell’Amazzonia. Quel certo “mondo come lo conosciamo” sta franando e gli zombie continuano la loro evoluzione in strade incompatibili con la vita e senza nessuna paura. Né per questo, oso credere, smettono per un momento di essere rosi dentro dall’esteriorità della loro condizione. La vita ancora resiste dentro di noi, persino a Zombieland. È il malessere che accusa quel che resta di umano nei nostri corpi.

Il nuovo malessere della civiltà

è oggi legato

al cambiamento climatico

È di Antonio Nobre, uno scienziato, un testo fondamentale. Leggere "O futuro climático da Amazônia" (Il futuro climatico dell'Amazzonia) non è un’opzione. Fa' un favore a te stesso, prenditi un'ora o due, il tempo di un film, vai su internet e leggi quelle 40 pagine scritte in un linguaggio accessibile, che collega vari campi della conoscenza. Ci sono brani di grande bellezza sulla maggior foresta tropicale del pianeta, territorio concreto e simbolico sul quale il senso comune, in un Brasile alimentato dalla propaganda della dittatura civile-militare, ha costruito un’idea di sfruttamento e nazionalismo che resiste fino ad oggi per totale ignoranza. È anche a causa della nostra ignoranza che il governo attuale, rieletto per un altro mandato, dirige in Amazzonia il suo progetto megalomane di grandi dighe, senza per questo incontrare una grande resistenza. E causa ora, in questo momento, un disastro ambientale di proporzioni incommensurabili in vari fiumi amazzonici e l’etnocidio dei popoli indigeni del bacino dello Xingu.

L’Amazzonia ha resistito per 50 milioni di anni a meteoriti e glaciazioni, ma in meno di 50 anni è minacciata dall’azione umana.

Antonio Nobre mostra come una foresta con un ruolo - insostituibile- nella regolazione climatica del Brasile e del pianeta ha avuto, negli ultimi 40 anni, 762.979 km quadrati disboscati: l’equivalente di tre stati di São Paulo o di due Germanie. O l’equivalente di più di 12.000 campi da calcio disboscati al giorno, più di 500 all’ora, quasi nove al minuto. Se sommiamo l’area di disboscamento a quella degradata, raggiungiamo la stima terrificante del 47% di foresta direttamente coinvolta, fino al 2013, dall’attività umana destabilizzatrice del clima. 

“La foresta è sopravvissuta per più di 50 milioni di anni all'attività dei vulcani, alle glaciazioni, alle meteore, alla deriva dei continenti”, scrive Nobre, “ma in meno di cinquant’anni è minacciata dall’azione degli umani”. L’Amazzonia dà forma al momento della Storia in cui l’umanità smette di temere la catastrofe per diventare essa stessa catastrofe.

 

Com’è possibile che questo succeda proprio qui, adesso, e che importi a così pochi? Se non ci svegliamo dal nostro torpore spaventato, i nostri figli e nipoti potranno vivere e morire con l’Amazzonia trasformata non in savana, ma in deserto, con un gigantesco impatto sul clima del pianeta e sulla vita di tutte le specie. Per avere un’idea della grandezza di quel che stiamo facendo, per azione o per omissione, per alienazione, anestesia o automatismo, alcuni dati: un grande albero traspira più di mille litri di acqua al giorno. Ogni 24 ore la foresta rilascia nell’atmosfera, per traspirazione, 20 miliardi di tonnellate d’acqua - o 20 trilioni di litri d'acqua. Per avere un’idea di paragone, il Rio delle Amazzoni rilascia meno di questo - circa 17 miliardi di tonnellate d’acqua al giorno - nell’oceano Atlantico. Non è necessario essere uno scienziato per immaginare quel che succederà al pianeta senza la foresta.

 

Nobre sostiene che non è già più sufficiente azzerare la deforestazione. Abbiamo raggiunto un tale livello di distruzione per cui è necessario rigenerare l’Amazzonia. La foresta non è il “polmone del mondo”, è molto più di questo, è il suo cuore. Non si tratta di una frase superata, di un cliché, ma di un fatto scientifico. È il mondo e non solo il Brasile che deve impegnarsi in questa lotta: lo scienziato ritiene che, se non vogliamo raggiungere il punto di non ritorno, dovremo intraprendere - fin d'ora - uno sforzo di guerra: cominciando da una guerra all’ignoranza. Fare una campagna forte ed efficace come quella contro il tabacco. Questo, chiaro, se vogliamo continuare a vivere.

In quest’epoca di tanta connessione, in cui la maggioranza delle persone passa il tempo della vigilia di capodanno connesso a internet, c’è questa sconnessione mortale dalla realtà del pianeta e da se stessi. Come cittadino, la maggioranza tutt’al più ricicla la sua spazzatura, ritenendo di fare un enorme sforzo, ma non si informa e né partecipa ai dibattiti e alle decisioni sulle questioni climatiche, dell’Amazzonia e dell’ambiente. In questo e in vari sensi, è come esistere nella “modalità aereo” del cellulare. Un esserci a metà, appena il sufficiente per compiere il minimo e non staccarsi del tutto. Un contatto senza contatto, un tocco che non tocca e non si lascia toccare. Un vivere senza vita.

Se non vogliamo 

raggiungere

il punto del non ritorno,

bisogna smettere

di vivere

in modalità aereo

Bisogna sentirlo, il malessere. Sentirlo davvero e non metterlo a tacere in svariati modi, medicine incluse. O, come dice la pensatrice americana Donna Haraway: “Bisogna vivere con terrore e allegria”.

 

Solo il malessere ci può salvare.

Eliane Brum

Eliane Brum

 

è nata a Ijuí, nel sud del Brasile, nel 1966. Scrittrice, reporter e documentarista, vive ad Altamira, città amazzonica nella quale si è stabilmente trasferita nel 2017. Ha vinto moltissimi premi nazionali e internazionali di giornalismo ed è la reporter brasiliana più premiata della storia.

Nel 2021 è stata tra le vincitrici dell'antico e prestigioso Premio Cabot di giornalismo della Columbia University. In Brasile, nel 2019, con il suo libro “Brasil, Construtor de Ruínas: um olhar sobre o país, de Lula a Bolsonaro”, ha vinto il Premio Vladimir Herzog de Anistia e Direitos Humanos, che riconosce il lavoro di giornalisti, reporter fotografici e disegnatori che attraverso il loro lavoro quotidiano difendono la democrazia, la cittadinanza ed i diritti umani.

Collabora con El País e The Guardian. Ha pubblicato un romanzo, "Uma Duas" (2011), ed altri sette libri. Ad ottobre del 2021 ha pubblicato la sua ultima opera "Banzeiro òkòtó: Uma viagem à Amazônia Centro do Mundo". I suoi libri sono stati tradotti in diversi paesi. In Italia ha pubblicato “Le vite che nessuno vede” (Sellerio 2020) ed un suo testo in "Dignità! Nove scrittori per Medici senza Frontiere" (Feltrinelli 2011).

 

Site: elianebrum.com | Twitter, Instagram e Facebook: @brumelianebrum

 

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