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Silvestro Montanaro

23.10.2013

Perché "C'era una volta" non ci sarà più e perché da fine mese non sarò più un autore ed un giornalista della Rai

di Silvestro Montanaro
 
Rendo pubblica, per puro spirito di trasparenza e senza alcuna volontà offensiva, e con molta amarezza, la lettera da me inviata due settimane fa al direttore generale della Rai, Luigi Gubitosi. Restata senza risposta.

Caro Direttore,

 

mi spiace importunarla, ma non posso farne a meno.

Da qualche giorno guardo e riguardo la lettera da Lei inviatami e non riesco a capacitarmi. Due righe, solo due righe, che risolvono per sempre, annullano, il mio rapporto con la Rai. E, per di più,  Lei mi scrive che accetta la mia proposta di risoluzione del contratto che mi lega da più di 20 anni alla nostra azienda.

 

La mia proposta? Mia? Devono averla tratta in inganno, signor Direttore. Io non le ho mai proposto di risolvere il mio rapporto con la Rai. Questa storia la subisco. E con infinita amarezza.

 

Avrei voluto spiegarle come stavano realmente le cose. Le ho inviato mesi fa una mail chiedendole un incontro. Non ho ricevuto risposta. Non gliene faccio una colpa. Immagino che ne riceva tantissime ogni giorno.

 

Ci riprovo ancora e questa volta chiederò un incontro alla sua segreteria.  Questa lettera, poi, perché abbia qualche chance in più di finirle tra le mani,  gliela manderò anche via fax. Non per disturbarla o pressarla. Ma mi capisca.. Non posso accettare quella sua frase. “Accetto la sua proposta di risoluzione..”. Semplicemente perché  non è vero.

 

Le racconto come stanno i fatti. Innanzitutto, chi è chi le scrive.

 

Sono un giornalista. Uno dei pochi che in Rai è entrato perché chiamato per le sue competenze. Lo fece Michele Santoro proponendomi di far parte della squadra che doveva editare una trasmissione dal nome fascinoso, Samarcanda. Era il 1989 credo. In precedenza avevo già collaborato con la Rai. Con Enzo Biagi, tra gli altri, al quale consentii la realizzazione di alcune importanti interviste sul caso Tortora. Ricordo che accettando l’offerta di Santoro, misi fine ad una mia piccola, ma affermata agenzia. Il compito che mi aspettava richiedeva il massimo impegno. Sa, Direttore, quando entrai la prima volta in Rai, un po’ tremavo. Era la più grande industria culturale del paese. Qualcosa capace di parlare immediatamente a milioni di nostri concittadini. Insomma, una grande responsabilità. 

E mi impegnai. Con tutta la passione possibile.

 

Di Santoro divenni, con gli anni, coautore, firmando con lui “Il rosso e il nero” e “Tempo reale”. Ideai "Sciuscià" e quando Santoro lasciò la Rai alla volta di Mediaset, scelsi di rimanere. Portai a termine il progetto Sciuscià ed accettai la proposta di Giovanni Minoli di esser autore di “Drug Stories”, un programma inchiesta sul mondo della droga, in collaborazione con le Nazioni Unite. Fu, a detta della nostra azienda, programma dell’anno.

 

L’anno successivo, realizzai “Il sogno di Antonio”, la prima trasmissione in Europa sul debito estero dei paesi del sud del mondo. Il format fu utilizzato da Oxfam per le sue campagne e per chiedere ad altri servizi pubblici europei analoghe operazioni informative.

 

Successivamente realizzai due documentari. “Col cuore coperto di neve” e “..e poi ho incontrato Madid”. Andarono in onda in seconda serata e accadde qualcosa di straordinario. Poche settimane dopo, su richiesta dei telespettatori, vennero replicati in prima serata. Si, su richiesta del pubblico che per una settimana intera paralizzò i centralini della Rai da Palermo a Milano. Ad un conto corrente dei Missionari Comboniani, in coda a “..e poi incontrato Madid”, arrivarono più di dieci miliardi di lire. Vennero salvate, dalla morte per fame, decine di migliaia di persone in Sud Sudan. E realizzate tante strutture di pubblica utilità.

 

Mi fu chiesto di pensare ad un programma di documentari in prima serata. Nacque, in collaborazione con Nazioni Unite, Istituti Missionari e mondo del volontariato, “C’era una volta”.  Un tentativo di racconto critico delle pagine più oscure dei processi di globalizzazione, dello stato dei diritti umani nel mondo, uno squarcio informativo su quelle che vengono chiamate le “crisi dimenticate”.

 

Pensi, e questo le confermerà la mia fama di rompiscatole.. mentre l’azienda si rivolgeva ad un’agenzia esterna per confezionare a caro prezzo un lancio, portai a casa spot per C’era una volta in cui ad invitare all’ascolto del programma erano tra gli altri Nelson Mandela e Jeorge Amado. Gratis.

 

Fu un'operazione di successo. C’era una volta fu programma dell’anno. Raccolse in seguito ogni possibile premio nazionale ed internazionale. Ricordo con piacere due medaglie dalla Presidenza della Repubblica ed il riconoscimento delle Camere riunite.  Fu replicata in tanti paesi del mondo. Filmati di C’era una volta hanno rappresentato la Rai in tre assemblee delle Nazioni Unite, sono stati utilizzati per più campagne internazionali sui diritti umani.

 

Era il 2000. L’anno successivo mi fu chiesto di pensare ad una produzione a cadenza settimanale di documentari. Un’impresa mastodontica, ma ci provai. Ottenni la collaborazione delle maggiori firme del documentario internazionale. E misi a punto due progetti. Il primo. Un tentativo di racconto a più mani di temi comuni alle genti europee nell’idea che un’informazione capace di mostrare la comunanza dei temi fosse assolutamente necessaria nella costruzione dell’unione europea. L’idea fu raccolta positivamente da più televisioni europee.

 

Il secondo. La più bella stagione del documentario italiano è stata quella degli anni 60. Quando le più grandi firme del cinema italiano si cimentarono con il racconto documentaristico del nostro dopoguerra. Anche questo progetto raccolse l’adesione di tanta parte del cinema italiano.

 

Questi progetti furono stroncati sul nascere per intervenuti problemi di budget aziendale. Un’occasione persa. Tanto più che i costi di produzione di C’era una volta sono sempre stati bassissimi. Le faccio un solo esempio. Con la cifra milionaria stanziata anni fa per produrre 5 documentari, mi sembra mai andati in onda, avremmo prodotto circa 80 puntate del programma.  Qualche maligno insinuò che più che problemi di budget, all’origine del ridimensionamento di C’era una volta ci fosse la mia pessima abitudine di far nomi e cognomi dei responsabili di tanti mali. Qualcuno insinuò addirittura che ci fossero state pressioni di importanti aziende multinazionali sulla nostra agenzia di pubblicità perché si mettesse fine a questo scandalo che era C’era una volta. Sa, direttore, ho fatto nomi eccellenti, toccato interessi grandissimi, ma non ho mai perso una causa per diffamazione. Mai. Non volli credere a quelle voci.

 

Nel 2002, in collaborazione con Lucio Caracciolo di Limes, ideai “Dagli Appennini alle Ande”, racconto  popolare dei più grandi temi della geopolitica. Riuscii a portare sul nostro schermo personaggi di primo piano, protagonisti veri delle grandi vicende globali. Il numero 2 del Fondo Monetario Internazionale; Boutros Boutros Ghali, ex segretario generale dell’Onu, solo per citarle alcuni. Raccontai con anticipo di anni retroscena dell’11 settembre, del massacro di Szebreniza, degli scandali finanziari di Eltsin e dei suoi. E poi, della criticità delle Nazioni Unite, del Tribunale Penale Internazionale, delle guerre umanitarie. Il programma, mal collocato e assolutamente non promosso, non ebbe vita facile. Ma quando le critiche a Rai International crebbero, venne lì riproposto raccogliendo consensi in tante parti del mondo. È stato un po’ il destino di C’era una volta. Un programma che è apparso sempre più un ospite ingombrante e difficile piuttosto che un prodotto Rai.

 

Per anni abbiamo  lavorato con due televisori (non funzionanti), due lettori beta (non funzionanti) , due videoregistratori (non funzionanti). Un programma di documentari internazionali, prodotto con la buona volontà. Eppure in certe stanze dell’azienda, spesso inutilizzati, quei mezzi c’erano. Ho lavorato con giovani redattori a contratto, spesso da fame. Le ultime due hanno lavorato a poche centinaia di euro al mese. Per giunta lorde. Si faceva finta che fossero collaboratrici esterne, ma erano in redazione dalla mattina alla sera. Lo sapevano tutti.

 

Poi, promozione zero, collocazione in palinsesto impossibile. Eppure tutte le volte che per un caso è maturata l’evidenza di una nostra messa in onda, gli ascolti sono stati più che brillanti. Alle volte da record per Rai 3.

 

La consapevolezza, poi, che si trattasse di un prodotto di rilievo, è non solo negli ascolti, quasi sempre più che dignitosi, ma anche nelle critiche e nei commenti. Nelle visualizzazioni in rete dei singoli documentari. Lei sa di sicuro che l’ascolto in rete ha grande valore, perché è una scelta. Tanti dei nostri documentari hanno superato le 50.000 visualizzazioni. Qualcuno addirittura le 200.000, un record per prodotti italiani. E, se non bastasse, la maggior conferma è nelle dichiarazioni pubbliche dell’azienda. Più volte in Commissione di Vigilanza la Rai, alle critiche sulla scarsa qualità dei suoi prodotti, ha risposto citando, tra gli altri, come prodotto d’eccellenza, C’era una volta.

 

Mi creda, sono contento di questa esperienza. Ho realizzato personalmente 50 e più documentari da un’ora, di cui tanti nella memoria di più generazioni di italiani. Madid, Caporal Highway, La mia Famiglia, Basta viver (La maledizione della fame), Bellissima, Vi ho tanto amati, La carne fresca, Ombre Africane, Dimenticateci, E quel giorno uccisero la felicità. Ed ancora decine di trasmissioni e servizi. Ho ricevuto premi e riconoscimenti di ogni tipo. La candidatura, in una selezione tra 1500 documentari, all’Oscar. 

L’uso per tante campagne internazionali, la presenza dei nostri prodotti in tante aree disagiate del pianeta, fosse anche quella da “pirateria” sulle bancarelle di tanti paesi africani, raccontano di un’operazione informativa che, con tutti i suoi limiti, ha dato voce a chi non l’aveva e ha scavato faticosamente pezzi di verità . Ed ha dato dignità alla Rai.  
Mi rammarico di una sola cosa. Avrei voluto e potuto far di più.

 

Ho un mare di ferie arretrate. Sa, era difficile produrre con pochi mezzi. L’unica soluzione era “spremere” se stessi. Ho lavorato il sabato e la domenica, tanti Natali… Ho avuto tre volte la malaria. La prima ci stavo lasciando la pelle. Ne porterò i segni tutta la vita. Ho fatto collezione di malattie tropicali. Ho rischiato più volte la vita in quelle che si chiamano assurdamente guerre dimenticate e che invece sono semplicemente e volutamente ignorate. I lividi e le botte prese neanche le conto. Tutta roba che fa parte del mio lavoro  e per la quale non ho mai chiesto all’azienda nulla in cambio. Credo sia una malattia. La voglia di raccontare, la ricerca della verità, sono la più formidabile ricompensa a qualsiasi infortunio.

 

E vado via dalla Rai, signor Direttore, così come vi sono entrato tanti anni fa. Da redattore ordinario, come l’ultimo arrivato. Per anni si è discusso sulla necessità di una mia promozione. Niente. Altri, probabilmente, meritavano più di me.

 

Chiedendole scusa per il tempo che le ho sottratto, vengo all’epilogo. Amaro, amarissimo.    

 

Due anni fa mia moglie si è ammalata. Non la annoio, ma è stata malissimo e con lei la nostra bambina. È una donna coraggiosa e sta affrontando i suoi problemi con grande tenacia. Il prosieguo della sua cura dovrebbe avvenire nel suo paese d’origine, il Brasile.

 

A febbraio, incontrando Vianello, il direttore di Rai3, gli ho prospettato la situazione e gli ho chiesto di poter produrre i miei documentari facendo base in Brasile. Avrei potuto far riferimento alla sede in apertura a Rio de Janeiro ed avrei risparmiato le spese fisse redazionali. Ho fatto presente che la mia produttività è fuori discussione e che avrei anche dato una mano al lavoro della nostra rappresentanza nel paese. Ho poi sottolineato che godo di visto permanente in Brasile, a breve di cittadinanza. Che conosco la lingua ed il paese. E mi sono detto pronto a firmare una dichiarazione in cui accettavo di lavorare lì alle stesse competenze di cui godo in Italia. Gli ho chiesto di parlargliene. Mi sembrava una soluzione che risolveva i miei problemi, ma anche vantaggiosa per l’azienda. Cittadinanza, possesso della lingua, conoscenza del paese, nessuna spesa aggiuntiva. Credo che in qualsiasi azienda la si sarebbe presa immediatamente e positivamente in considerazione. Mi si disse che in pochi giorni avrei ricevuto una risposta. E fu invece silenzio.

 

Mi sono rivolto allora all’ufficio personale. Mi è stato detto che ciò che prospettavo era irrealizzabile. Perché? Mi è stato proposto di andar via con un contratto di collaborazione per un paio d’anni. Perché?  Ho accettato mio malgrado. Cosa avrei dovuto scegliere se non la salute di mia moglie?

 

Altro lungo silenzio. Dopo mie pressioni, mi è stata riferita una sua contrarietà. Se si va via, si va via, avrebbe detto lei. Ed io concordo con lei . Io però non volevo andar via. Ero costretto ad andar via dalle circostanze e da un’azienda che sembrava incapace di cogliere un'opportunità.  Ho detto che accettavo, anche se non volevo. L’importante che tutto si facesse in tempi rapidi, visto che a fine settembre dovevo partire. Altro silenzio, rotto solo dalla brutta notizia che mentre a me si rifiutava persino un contratto di collaborazione,  la stessa cosa era possibile per altri. Avevano più competenze di me, signor direttore? Le costavano meno di me?

 

Finalmente, a fine luglio mi si fa firmare un foglio, la famosa “mia proposta”.  E poi ancora silenzio, telefonate senza risposta. Mail a cui si rispondeva di star tranquillo.

 

Le chiedo: si può star tranquilli mentre si organizza un trasloco internazionale, si mette in gioco la propria vita e quella della propria famiglia e farlo senza avere neanche uno straccio di carta che ti dia una certezza. Si può star tranquilli mentre la persona a te più cara ti guarda e chiede se finalmente è arrivata una risposta? Ed infatti non c’era da star tranquilli. La sua lettera è arrivata quando settembre finiva. Trasloco rinviato, con tutti i problemi che lei può immaginare. Dolorosi, direttore, molto dolorosi.

 

Sono convinto che a Lei di tutto questo non sia arrivata neanche un’eco. Per questo le scrivo. Io non volevo. Io non voglio andar via. E, soprattutto, credevo e credo di meritare rispetto.

 

Se invece Lei riterrà che oramai è fatta, Le chiedo almeno di far qualcosa per salvare C’era una volta. Credo che all’azienda, e soprattutto al pubblico, interessi avere una finestra di qualità aperta sui problemi del mondo e sulle sue tante crisi.

Ho prospettato al suo Vianello la possibilità di realizzare tre o quattro puntate l’anno dall’esterno. Mi son detto pronto a farlo alle condizioni che l’azienda riterrà più opportune. Al prezzo che voi deciderete.

 

Non è solo un problema di “tengo famiglia” e arrivare alla pensione ancora lontana. Per me che il programma sopravviva è soprattutto importante per l’azienda per cui ho lavorato credo con onore tanti anni e per quel pubblico che ne aveva fatto un appuntamento, difficile e notturno, ma un appuntamento. E, se me lo permette, per quella mia dannata malattia, raccontare. E da raccontare ci sarebbe tanto, tantissimo, senza scadere in formule di fatto irridenti la complessità e la gravità dei temi.

Anche a questa mia ultima proposta, ha fatto seguito un triste silenzio.

 

Le chiedo, gentilmente, di farmi capire se anche lei è d’accordo a che tutta questa esperienza debba finire così miserevolmente. Lo faccia, se riterrà opportuno, con un’altra lettera e gentilmente non mi parli più della mia proposta di risoluzione del rapporto con la Rai. Io, la Rai, non l’avrei mai lasciata. E l’ho sempre onorata.

 

Grazie per la sua paziente attenzione

 

Silvestro Montanaro 

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